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Pojo Rosso, indagine sconosciuta: «Arena è vittima, non un colluso»

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© Foto Biancavilla Oggi

Giuseppe Arena non è un sodale dell’organizzazione mafiosa, ma una vittima del clan di Biancavilla. Un giovane che si è ribellato all’imposizione del pizzo, dando impulso ad indagini che hanno permesso di fare piazza pulita. È quanto sostenuto dalla Procura di Catania, con il pm Andrea Bonomo. Ed è quanto ha riconosciuto il giudice Luigi Barone, apponendo il suo timbro che sancisce l’archiviazione dell’ipotesi di reato del “416 bis”.

L’ex imprenditore del settore delle pompe funebri, assistito dall’avv. Pilar Castiglia, è stato così scagionato da qualsiasi ombra a sua carico. D’altra parte, l’ipotesi accusatoria che muove da incontri e intercettazioni telefoniche con Giuseppe Amoroso (figura presente fin agli anni ’90 in diverse operazioni antimafia e sfuggito ad un agguato nel gennaio 2016) è in netto contrasto con il percorso di collaborazione con i carabinieri di Arena che lo ha fatto rientrare nel programma di protezione dei testimoni di giustizia. A lui, in particolare, si deve l’operazione “Reset” e, in parte, pure “Onda d’urto” e l’inchiesta sulla “ambulanza della morte”. Su di lui, magistrati e carabinieri hanno fatto affidamento.

«Alla luce di tali circostanze, già comprovate anche da sentenze di merito, è evidente –sottolinea il pm Andrea Bonomo– come gli elementi posti a fondamento della denuncia dell’Arena nella “Comunicazione Notizie di Reato” del settembre 2016, già di per sé palesemente generici, equivoci ed insufficienti per sostenere l’accusa, debbano essere riletti sulla scorta del fatto che l’Arena, lungi dall’essere un sodale dell’Amoroso, in realtà era una vittima di estorsione e per tale ragione aveva rapporti con il medesimo».

Motivazioni recepite in toto dal Gip Barone. A fare emergere, in occasione di un’udienza, l’inchiesta a carico di Giuseppe Arena erano stati –come aveva raccontato già Biancavilla Oggi– i legali degli imputati del processo scaturito dal blitz “Onda d’urto”.

Arena era pronto, in videoconferenza collegato da una località segreta, ad essere sentito come teste, ma gli avvocati avevano fatto emergere il suo status di indagato, innescando il rinvio dell’udienza. Lo stesso pubblico ministero, comunque, aveva anticipato la richiesta di archiviazione: cosa poi avvenuta, permettendo all’ex imprenditore di dare la sua testimonianza e confermare così il valore e la credibilità delle dichiarazioni rese in diverse occasioni e sulle quali Procura e Tribunale non hanno avuto dubbi.

Il contesto di indagine in cui era finito l’ex titolare dell’agenzia di pompe funebri –va spiegato– è antecedente ai blitz “Onda d’urto”, “Reset” e “Città blindata”, quando cioè ancora la famiglia Arena (oltre a Giuseppe, il fratello Luca e il padre Orazio) non aveva intrapreso un proficuo dialogo con magistrati e carabinieri, sfociato poi in una pioggia di ordini di arresto per esponenti di tre gruppi criminali (dai confini labili), eredi del vecchio clan Toscano-Mazzaglia-Tomasello.

Si tratta di un fascicolo di inchiesta, denominato “Pojo Rosso”, rimasto praticamente sconosciuto alle cronache ma su cui ora Biancavilla Oggi è in grado di svelare i dettagli. Nell’indagine erano finiti in 33: quasi tutti “soliti noti” (con nucleo centrale i fratelli Vito e Giuseppe Amoroso) per attività associativa di tipo mafioso e traffico di sostanze stupefacenti (in particolare, marijuana e cocaina), senza disdegnare azioni estorsive e gestione illegale di slot machine, nel periodo che va dall’aprile 2014 al settembre 2016. Poi è stato fatto uno stralcio, alcune posizioni hanno seguito percorsi autonomi. Personaggi che in gran parte figureranno successivamente nei fascicoli di “Onda d’urto”, “Reset” e “Città blindata”. Così, dopo essere stato “filtrato” e alleggerito, il faldone dell’inchiesta “Pojo Rosso” è rimasto con una serie di episodi residuali (tra cui, quelli a carico di Giuseppe Arena). Per questi ultimi, il pm ha formulato così richiesta di archiviazione per 30 soggetti. Richiesta (spicca quella di Giuseppe Arena, cui è dedicato il paragrafo più corposo) accolta dal Gip.

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Cronaca

La cocaina nascosta nel frigorifero: 40enne arrestato dai carabinieri

Trovato pure il “libro mastro” con i nomi dei clienti e la rendicontazione dell’attività di spaccio

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I Carabinieri della Stazione di Biancavilla e i colleghi dello “Squadrone Eliportato Cacciatori di Sicilia” hanno arresto un pregiudicato 40enne per detenzione di sostanze stupefacenti ai fini di spaccio.  

L’uomo – con precedenti per droga – era stato notato in atteggiamento “sospetto” in alcune aree a verde del paese. Così sono scattati appostamenti e pedinamenti da parte dei militari. Un’attività poi conclusa con un blitz nella sua abitazione, dove si è proceduto ad un’accurata perquisizione.

In cucina, i militari si sono accorti che l’uomo era diventato estremamente nervoso. In effetti, in un pensile erano nascosti un bilancino di precisione, numerose bustine in plastica trasparente, un coltellino, un quaderno con nomi e prezzi di vendita, 145 euro e un mini smartphone senza sim card.

Ma non è finita qui. I carabinieri hanno proceduto ad ispezionare anche l’interno del frigorifero. All’interno dell’elettrodomestico, in uno scompartimento laterale, erano stati infilati 3 tubetti apparentemente di farmaci. È stato aprirli per scoprire il vero contenuto: 16 dosi di cocaina.

Trovata la droga, il materiale necessario al suo confezionamento, il denaro e il “libro mastro” relativo alla rendicontazione dell’attività di spaccio, l’uomo è stato arrestaro e rinchiuso nel carcere catanese di Piazza Lanza.

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