Cultura
Accadeva a Biancavilla: la “pietra del vituperio” e le natiche dei debitori
Quando gli insolventi erano costretti in piazza a calarsi le brache e sbattere il sedere su una “balata”

Fra le tante caratteristiche e peculiarità dei giochi infantili del passato, una è quella di riprodurre la realtà degli adulti, di essere cioè lo specchio della vita e di ripeterne i gesti e le parole, innescando un processo di apprendimento continuo che porterà i bambini, una volta diventati adulti, a destreggiarsi nel mondo. Come sintetizzava efficacemente il filosofo tedesco Eugen Fink (1905-1975), «Il gioco pervade la vita umana […] in esso si rispecchiano i grandi contenuti della nostra esistenza: il gioco li abbraccia tutti».
Vogliamo esemplificare il nostro assunto con la descrizione di un gioco che facevano ancora nell’Ottocento i ragazzini di Palermo. Un gioco non citato nella raccolta di Pitrè (Giuochi fanciulleschi siciliani, 1883), ma descritto in un articolo del 1885 di Antonino Flandina (Il miserrimo rifugio della cessione dei beni), su cui torneremo ancora.
Ecco la descrizione del gioco con le parole del Flandina: «Sovente i nostri monelli scelgono questo giuoco per isvagarsi un poco nei giorni festivi, o alla sera al termine del travaglio, o della scuola. Si riuniscono in cinque, in sei ed anche più, si mettono a ruota e fanno il così detto tocco per conoscere colui che debba farla da paziente, deve appuzzari. Fatto in giro il conto dei numeri, da ciascuno indicati coi diti della mano, quegli su cui cade la sorte, va a mettersi con la testa al muro, formando del suo corpo un angolo acutangolo con il deretano sporgente».
«L’altro monello, che la fa da maestro del giuoco, salta subito a cavalcione del paziente e gli altri stanno a debita distanza. Il cavalcante poscia comincia a gridare per tre volte: cui havi ad aviri si vegna a paga, ed allora sfilano ad uno ad uno gli altri monelli gridando ancor essi cui havi ad aviri si vegna a paga, e qui a dar pizzicotti, pugni e a fare altri scherzi poco graditi nel didietro del povero paziente, il quale spesso, sentendosi soverchiamente maltrattato, anche da coloro che sono estranei al giuoco e vi prendono parte per incrudelire vieppiù contro di lui, se ne ricompensa col tirar calci a tutta forza, non potendo altrimenti, perchè tenuto a freno dal suo cavalcante. Guai a chi tocca di buscarne qualcuno! Finito il giuoco lo ricominciano da capo alternando tra di loro il paziente, mercè il tocco».
La “pietra” nella piazza di Biancavilla
Questo gioco riflette in maniera lampante una triste consuetudine dei tempi passati che si svolgeva anche a Biancavilla. Ne dà testimonianza il canonico Placido Bucolo nella sua Storia di Biancavilla (1953), allorquando parla della «Pietra del vituperio». Ne riportiamo per intero il brano.
«I debitori, che non potevano o non volevano pagare, venivano sottoposti alla vergognosa azione di calarsi in pubblico le brache e battere colle natiche tre volte sopra una balata o pietra del vituperio, collocata nell’aula della Curia Capitaneale, o in una pubblica piazza alla presenza dei creditori e di molti curiosi, accompagnando l’atto indecoroso colle rituali parole: chi ha da avere, venga a pagarsi. I vecchi ci hanno tramandato questa usanza a Biancavilla, ed anche la persona, che battè il sedere sulla balata posta nella piazza della Matrice».
Di questa balata non è rimasta traccia a Biancavilla. È auspicabile che gli storici riescano a rintracciare testimonianze di questa pratica negli atti delle corti di giustizia o in altri documenti.
Una pratica codificata
La consuetudine di cui parla il Bucolo era codificata nella legislazione in vigore fino al XVIII secolo ma, stando alle testimonianze, applicata localmente fino al XIX secolo. Essa si poneva addirittura come un beneficio nei confronti dei debitori che, in cambio della cessione ai creditori di tutti i beni che possedevano, potevano evitare il carcere e salvare così la reputazione.
Ma, è da precisare, il debitore doveva prima implorare la Gran Corte Civile che, dopo avere accertato che il debitore aveva contratto i debiti senza dolo nei confronti del creditore, che non era cioè un truffatore, che si impegnava a cedere i suoi beni, presenti e futuri fino a estinguere il debito, rimetteva l’esame al giudice. Questi emetteva la sentenza con la quale si ordinava da una parte di restituire in libertà il debitore e dall’altra di invitare quest’ultimo a sottoporsi a quella pratica umiliante.
Il citato Flandina riporta un interessante documento, un atto della G. Regia Corte, datato 7 luglio 1601, in cui un poveraccio, un certo Nicola Gamba, viene ammesso al «beneficio»: viene dunque chiamato nell’udienza del Tribunale a percuotere col sedere denudato per tre volte la pietra del vituperio, pronunciando ad alta voce le seguenti parole: cui havi di ricipiri si vegna a paga. Come si legge nell’atto: natibus discopertis, circuendo et tangendo ter, lapidem vituperii, dixit alta voce et preconie cui havi di ricipiri si vegna et paga…
Consuetudine non solo siciliana
Non si creda che questa umiliante consuetudine fosse solo della Sicilia, poiché le prammatiche dei vari Stati italiani preunitari sono lì a testimoniare che la pietra del vituperio era conosciuta anche altrove. In molte città italiane della Lombardia, del Veneto, dell’Emilia, della Toscana, scrive Flandina, «sin dal secolo XII si usava obbligare il fallito a fare solenne cessione dei suoi beni in pubblica concione, presentandosi seminudo, in camicia e mutande, e percuotendo col sedere [da] una a tre volte la pietra a ciò destinata. Et ipse cedens, percutiendo lapidem natibus ter dicat alta voce, cedo bonis».
Nel medioevo questa pratica era detta acculattata, così descritta dal Vocabolario Treccani: «Pena inflitta nel medioevo ai debitori insolventi: consisteva nello spogliarli nudi in tribunale o nella pubblica piazza e nello sbatterli con forza, per tre volte, a sedere su una pietra (detta pietra del vitupèro), mentre pronunciavano le parole “cedo i beni”.» Sono ancora molte le città italiane che mostrano la «pietra dei falliti» o «pietra del fallimento», chiamata ringadora a Torino, lastrone a Firenze, bbalata in Sicilia.
Oltre al gioco di cui abbiamo parlato, anche la lingua e il dialetto conservano traccia di questa antica consuetudine: un modo di dire dell’italiano era battere o dare il culo sul lastrone, cioè ‘fallire’; a Parma si diceva sculazzàr la prèda. La lessicografica siciliana del Sette- e Ottocento registra dari lu culu / li chiappi a la / nni la bbalata coi significati di a) ‘dichiarar fallimento, far bancarotta cedendo i propri beni’ e b) ‘perdere tutti i beni, ridursi in miseria’. Anche Andrea Camilleri, nel Glossario aggiunto a Un filo di fumo nell’edizione selleriana del 1998, scrive che «La balàta è anche la pietra da lastricare: dari lu culu a la balàta: ridursi sul lastrico».
Nonostante Solone in quanto legislatore di Atene nel 494 a.C. avesse abolito la schiavitù per debiti con la cosiddetta σεισάχϑεια ([seisàchtheia]‘scotimento dei pesi’) e nonostante un analogo provvedimento fosse stato preso dai Romani con la Lex Poetelia Papiria del 326 a. C. (o 313?), l’accanimento delle leggi contro i debitori non ha mai cessato di esistere. Col tempo la schiavitù degli insolventi si è trasformata in prigione e poi in pubblica gogna, ma la sostanza non è cambiata. Dobbiamo aspettare il XVIII secolo dell’era moderna per trovare nella legislazione sui debitori condizioni un poco più umane.
(Grazie ad Antonio Zappalà per il suggerimento).
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Cultura
Ficurìnnia nustrali, trunzara o bastarduna ma sempre da “scuzzulari”
Dalle varietà del succoso frutto alle varianti dialettali, tra tipi lessicali e significati metaforici


Se c’è una pianta che contrassegna fisicamente il paesaggio della Sicilia e la simboleggia culturalmente, questa è il fico d’India o, nella forma graficamente unita, ficodindia (Opuntia ficus-indica). Pur trattandosi infatti di una pianta esotica, originaria, come sappiamo, dell’America centrale e meridionale, essa si è adattata e diffusa capillarmente in tutto il territorio e i suoi frutti raggiungono le tavole di tutti gli italiani e non solo. A Biancavilla, la pianta e il frutto si chiamano ficurìnnia, ma in Sicilia si usano molte varianti, dalla più diffusa ficudìnnia a quelle locali, come ficadìnnia, ficalinna, ficarigna, fucurìnnia, ficutìnnia, cufulìnia ecc. Atri tipi lessicali sono ficupala, ficumora, mulineḍḍu.
Esistono inoltre specie non addomesticate, come l’Opuntia amyclaea, con spine molto pronunciate, sia nei cladodi sia nei frutti, poco commestibili, e usate principalmente come siepi a difesa dei fondi rustici. In Sicilia, questa si può chiamare, secondo le località, ficudìnnia sarvàggia, ficudìnnia spinusa, ficudìnnia di sipala, ficudìnnia masculina, ficudìnnia tincirrussu. Per distinguerla dalla specie ‘selvatica’, quella addomesticata è in Sicilia la ficurìnnia manza, di cui esistono varietà a frutto giallo (ficurìnnia surfarina o surfarigna), varietà a frutto bianco (ficurìnnia ianca, muscareḍḍa o sciannarina [< (li)sciannarina lett. “alessandrina”]), varietà a frutto rosso (ficurìnnia rrussa o sagnigna), varietà senza semi (ficudìnnia senza arìḍḍari, nel Palermitano). I frutti pieni di semi si dicono piriḍḍari, quelli eccessivamente maturi mpuḍḍicinati o mpuḍḍiciniḍḍati, quelli primaticci o tardivi di infima qualità sono i ficurìnnia mussuti (altrove culi rrussi).
In una commedia di Martoglio (Capitan Seniu), il protagonista, Seniu, rivolto a Rachela, dice:
Almenu ti stassi muta, chiappa di ficudinnia mussuta, almenu ti stassi muta! … Hai ‘u curaggiu di parrari tu, ca facisti spavintari ‘dda picciridda, dícennucci ca persi l’onuri?
Come è noto il frutto del ficodindia matura nel mese di agosto, ma questi frutti, chiamati (ficurìnnia) nuṣṭṛali a Biancavilla, anche se di buona qualità, fra cui sono da annoverare i fichidindia ṭṛunzari o ṭṛunzara, in genere bianche, che si distinguono per la compattezza del frutto, non sono certo i migliori. Quelli di qualità superiore, per resistenza e sapidità, sono i bbastardoli, o, altrove, bbastarduna. Questi maturano tardivamente (a partire dalla seconda metà di ottobre) per effetto di una seconda fioritura, provocata asportando la prima, attraverso lo scoccolamento o scoccolatura, una pratica agricola che consiste nell’eliminazione, nel mese di maggio, delle bacche fiorite della pianta, che verranno sostituite da altre in una seconda fioritura. A Biancavilla e in altre parti della Sicilia si dice scuzzulari i ficurìnnia.
Per inciso, scuzzulari significa, da una parte, “togliere la crosta, scrostare”, dall’altra, “staccare i frutti dal ramo”. Dal primo significato deriva quello metaforico e ironico di “strapazzarsi”, in riferimento a persona leziosamente ed eccessivamente delicata, come nelle frasi staccura ca ti scòzzuli!, quantu isàu m-panareḍḍu, si scuzzulàu tuttu, u figghju! Così “di chi ha fatto una cosa trascurabile e pretende di aver fatto molto e di essersi perfino affaticato”. Inoltre, èssiri nam-mi tuccati ca mi scòzzulu si dice “di una persona assai gracile” oppure “di una persona molto suscettibile e permalosa”. Il verbo, infine, deriva da còzzula “crosta”, dal latino COCHLEA “chiocciola”.
Ritornando ai fichidindia, sono ovviamente noti gli usi culinari, la mostarda, il “vino cotto”, quelli dei cladodi, le pale, nella cosmesi o ancora nell’artigianato per realizzare borse di pelle vegan, ma essi, o meglio alcuni loro sottoprodotti, sono stati anche, in certi periodi, simboli di povertà. Quando, infatti, si faceva la mostarda, i semi di scarto venivano riutilizzati, ammassati in panetti e conservati. Si trattava di un prodotto povero di valori nutrizionali e dal sapore non certo gradevole come la mostarda. Si chiamava ficurìnnia sicca, locuzione divenuta proverbiale a volere indicare non solo un cibo scadente ma perfino la mancanza di cibo. Cchi cc’è oggi di manciàri? ‒ Ficurìnnia sicca! Cioè “niente!”
PER SAPERNE DI PIU’
“La Sicilia dei cento dialetti” di Alfio Lanaia
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