Cultura
Ascensione, le tradizionali “vampe” di Biancavilla: riti non soltanto religiosi
Donne, bambini, anziani e… innamorati: quelle fiamme che illuminavano e riscaldavano tutti
Quaranta giorni dopo Pasqua, la Chiesa festeggia l’Ascensione di Cristo in cielo. Fino a qualche anno fa, tradizionalmente, tale festa veniva celebrata nella notte tra il mercoledì e il giovedì esattamente al quarantesimo giorno dopo la Resurrezione.
A Biancavilla i preparativi del rito che avrebbe visto l’accensione di un grande fuoco, avvenivano fin da qualche giorno prima. In ogni quartiere, qualcuno si incaricava di raccogliere la legna necessaria per fare ‘a vampa. Si badava bene di raccogliere legna buona da ardere (fascine di rami ben secchi che avessero preso fuoco facilmente emettendo una fiamma viva), evitando i resti di mobili inusati o vecchi. Nel quartiere, tutte le famiglie contribuivano a questa raccolta e chi non aveva legna da ardere faceva la sua parte con una offerta in danaro, o mettendo a disposizione i propri mezzi per il trasporto o il proprio lavoro.
Nel pomeriggio del mercoledì venivano formate le cataste che generalmente vedevano abbondanza di fasci di legna e quindi si preferiva fare più di un falò. In qualche quartiere si facevano, quindi, anche due o tre vampe, quasi ad ogni incrocio e in ogni cortile abbastanza spazioso da poter contenere tutto e tutti.
Al centro del cumulo si poneva anche una canna come fosse una banderuola (ricordava forse quella del Cristo Risorto della Domenica di Pasqua?). I preparativi erano affidati alle donne, agli anziani e ai bambini che non mancavano di trasportare legna da un posto a un altro per tutto il pomeriggio.
All’imbrunire, quando gli uomini tornavano dal lavoro, ci si radunava attorno alla catasta più vicina alla propria casa per assistere al rito. I vicini radunati conversavano mentre i bambini portavano le novità sulla medesima organizzazione negli altri quartieri.
Qualche giovanotto con la scusa della vampa veniva ad ammirare la ragazza alla quale faceva la corte da tempo, approfittando del fatto che in questa occasione ella si sarebbe affacciata davanti alla porta.
Quando calava il buio…
Calato il buio, qualcuno cominciava a chiedere: Ddumamu? Ma per le prime volte la risposta era sempre no. No, ca manca a gna Maridda! Oppure: No, e cchi ama a essiri i primi?
In questi attimi di attesa qualcuno deponeva sotto le fascine un sasso che, dopo la vampa, portato a casa, dal giorno dopo avrebbe protetto la famiglia soprattutto in caso di forti temporali.
Quando finalmente ognuno era al suo posto, e le stelle di maggio si vedevano brillare tutte nel cielo, allora i più anziani comandavano: Ddumamu! Un paio di persone si avvicinavano alla legna e davano fuoco alla catasta. Cominciava a Vampa.
Per qualche minuto si interrompeva il brusio e tutti guardavano quel fuoco “magico” che si innalzava verso il cielo e illuminava la notte. I bambini ammiravano incantati quello spettacolo che essi stessi avevano preparato aiutando i grandi.
A casiastra (in ogni quartiere ce n’era qualcuna) a questo punto, elevava una preghiera alla quale tutti rispondevano devotamente.
Poi i piccoli riprendevano le corse (i più discoli accendevano anche qualche ‘ssicuta-fimmini, le cannucce riempite di polvere da sparo che scoppiettavano una volta accesa la miccia).
Il giovanotto, invece, non staccava gli occhi dall’amata, attendendo un cenno. O, nel caso più fortunato, un sorriso o un saluto, sperando di eludere la rigida sorveglianza dei parenti di lei (che spesso, assieme a tutto il vicinato, conoscevano quei sentimenti già da molto tempo!).
Faville verso il cielo
Per un’ora o più quelle fiamme di luce e di calore irrompevano nella vita della comunità. La riscaldavano e la illuminavano dopo i lunghi mesi invernali, annunciando solennemente la bella stagione. Quelle faville si innalzavano verso il Cielo quasi a ringraziarlo per aver fecondato la terra che, fra poche settimane, sarebbe stata pronta a dare l’atteso frutto: il frumento per sfamare tutti.
Simboli ancestrali si manifestavano nei riti cristiani relativamente recenti.
Nel momento in cui le fiamme raggiungevano la canna posta al centro del falò ed essa cadeva, Gesuzzu ‘cchianava ‘ncielu! Si battevano le mani. Vecchi e fanciulli godevano allo stesso modo.
Era l’ennesima occasione per stare insieme, tessere buoni rapporti, rafforzare i legami…
Alla fine, gli stessi organizzatori, buttavano qualche secchio d’acqua e spazzavano la strada, ma i resti di quel fuoco difficilmente sparivano del tutto prima di qualche giorno.
Anche l’innamorato, con malcelata indifferenza, doveva staccare gli occhi dall’amata e fare ritorno a casa.
Quella stessa sera, si metteva fuori di casa un catino con dell’acqua dentro la quale erano stati posti dei petali di rose appena raccolte. Era credenza diffusa che Gesù salendo in cielo, quella notte avrebbe benedetto l’acqua e quindi la mattina seguente tutti i componenti della famiglia ne prendevano un po’ per lavarsi il viso ricevendone la benedizione. Le rose, tolte dall’acqua, poi si facevano essiccare e si mettevano in mezzo alla biancheria, soprattutto quella destinata alla dote delle figlie femmine.
Qualche altra famiglia, lasciava per tutta la notte fuori dalla finestra un lume acceso. In quella notte così sacra, il Redentore non avrebbe rifiutato di esaudire le preghiere di chi riponeva in lui le proprie speranze e accompagnava la sua ascesa al Padre con la luce di un lume, segno della fiamma della propria fede.
(Tratto da A Vui Priamu – Viaggio tra le preghiere, i racconti, le credenze e le pratiche religiose nella Biancavilla di una volta di Filadelfio Grasso – Biblioteca Comunale G. Sangiorgio, Biancavilla, 2012)
Cultura
Memorie della famiglia Piccione: uno squarcio nella storia di Biancavilla
Nel libro di Giosuè Salomone una ricostruzione accurata con aneddoti e una ricca documentazione
Le pagine iniziano con la trascrizione dell’audio della voce di nonna Concettina, classe 1877, che, ignara di essere registrata, narra episodi riguardanti i suoi stessi nonni e quindi arrivando a fatti risalenti al XVIII secolo. Prende il via così un viaggio che, attraverso le storie e mediante la puntuale ricostruzione narrativa di luoghi e situazioni riportate da Giosuè Salomone, con la precisione di un matematico e con la passione di chi si sente parte viva e attiva di ciò che scrive, ci fa scoprire e riscoprire la storia del nostro paese, ci fa rivivere la realtà della nostra comunità fin quasi alle origini stesse, facendo parlare i documenti.
Il suo ultimo lavoro di ricerca è intitolato “Per sé e per la delizia degli amici, la famiglia Piccione di Biancavilla” (Giuseppe Maimone Editore, 180 pagg.).
Il capostipite Thomas Piccione si stabilisce a Biancavilla tra la fine del Cinquecento e gli inizi del Seicento, probabilmente inviato dai Moncada, signori della contea di Adernò, di cui Biancavilla faceva parte. Nei decenni successivi i discendenti, che come il padre, probabilmente svolgevano il mestiere delle armi al servizio del loro signore, assumono un ruolo fondamentale nella società paesana.
Francesco viene investito del titolo di barone di Grassura e del Mulino d’Immenzo, e i suoi discendenti si dedicano alla costruzione di un mulino, di alcune chiese, ne restaurano e abbelliscono altre. Furono i principali mecenati del pittore Giuseppe Tamo. Acquistano terreni e, mediante matrimoni e padrinati nei battesimi, riescono a stringere relazioni con altre famiglie aristocratiche del circondario, accrescendo in importanza e prestigio.
Un viaggio lungo i secoli
Tra i vari racconti di nonni, bisnonni, zii e prozii, approfonditi e corroborati da atti notarili e testamenti, lettere, fogli di famiglia e altre carte, si riesce a desumere uno spaccato della società biancavillese durante i secoli, anche quelli più oscuri e incerti del Seicento e degli inizi del Settecento. E si arriva al Risorgimento, ai moti patriottici, all’Unità d’Italia e al periodo turbolento che la seguì (la storia di Piccolo Tanto – Ferdinando Piccione – è veramente emblematica e suggestiva).
Fanno da sfondo il palazzo Piccione, lo scrigno che ha custodito eventi e, come è naturale che sia, circostanze intime e quotidiane per ben dieci generazioni a partire da Giosafat Piccione, rappresentando un continuum nella storia di famiglia. E poi u giardineddu do’ spasimu, un appezzamento di terreno a sud del centro abitato voluto da Salvator Piccione «per sé e per la delizia degli amici» (frase incisa in latino sull’arco d’ingresso del podere). Il quartiere di san Giuseppe dove sorge quella che fu la cappella presso la corte di palazzo.
Tra le pagine emergono anche i tratti psicologici e caratteriali di molti personaggi del casato ma, di rimando, pure quelli di molti compaesani del tempo ormai passato. Affiora perfino un certo lessico familiare che varca i decenni e, attraverso aneddoti e storielle, perpetua le memorie di famiglia.
Nella seconda parte del volume, diverse appendici, allargano la ricerca di Giosuè Salomone, e la arricchiscono con svariati contributi: cartine topografiche, piantine e alberi genealogici che, quando saranno approfonditi dai lettori, riveleranno indubbiamente tantissime curiosità e chissà, permetteranno a ogni appassionato di rivedersi in qualcuno dei personaggi o ritrovarsi, magari con la sola fantasia, in una delle vicende descritte…
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