Cultura
Le 24 lettere della rinascita di Gerardo Sangiorgio: ritrovate dopo 75 anni
La corrispondenza finita all’asta: una prospettiva diversa del biancavillese sopravvissuto ai lager
A distanza di oltre settantacinque anni ritornano nelle mani dei familiari alcune lettere indirizzate a Gerardo Sangiorgio, di cui si ignorava l’esistenza e il valore. Ventiquattro, per la precisione, conservate in una vecchia scatola, trovate su indicazione dello scrivente e vendute all’asta nell’ottobre scorso. Ne diamo i dettagli per la prima volta su Biancavilla Oggi. Ci parlano del periodo in cui il professore e letterato biancavillese si trovava ad Arienzo, in provincia di Caserta, ospite della zia materna Lucia Fugaro, che con ogni probabilità si era interessata a fargli avere il posto di insegnante presso l’Istituto di Avviamento professionale Basilio Puoti di quel paesino.
Le lettere, scritte su cartoline postali negli anni 1948 – 1949, furono custodite fino alla morte dalla zia, ma quando negli anni ’90, la sua casa fu venduta, la scatola con gli effetti personali di Gerardo finì nel mercato antiquario della Campania. Qui, questa corrispondenza ebbe almeno due passaggi di mani. Alla fine, chi le ha messe in vendita all’asta, rimase profondamente colpito dalla storia di questo giovane insegnante sopravvissuto alla deportazione.
Il dramma della deportazione
Sangiorgio, anni prima era stato obbligato a prestare servizio militare come Volontario Universitario. Tutti gli universitari, nati tra il 1919 e il 1922, reclutati come “volontari”. Ma tra costoro, lo stesso Sangiorgio non ne aveva mai trovato nemmeno uno realmente volontario. Nel suo fascicolo universitario c’è la richiesta di rinvio, rigettata per l’arruolamento coatto. Nel 1942, quindi, fu inviato a combattere sul fronte in Grecia, da dove venne rimpatriato per le precarie condizioni di salute.
L’8 settembre del ’43, alle sette di sera, si diffuse la voce della firma dell’Armistizio e la fine della guerra. Quella sera Gerardo si abbracciò calorosamente con gli amici, carico di speranza. Ma la gioia durò poco perché nella notte furono catturati dai tedeschi. Lui, da convinto antifascista, rifiutando di aderire alla Repubblica di Salò, venne deportato nei campi di sterminio nazisti di Neubranderburg bei Neustrelitz, Düisdorf e Bonn sul Reno.
Esperienze e memorie che la nostra casa editrice Nero su Bianco ha raccontato, con un’ampia documentazione inedita, in due volumi di Salvatore Borzì: “Internato n. 102883/IIA. La cattedra di dolore di Gerardo Sangiorgio” (2019) e “Una vita ancora più bella. La guerra, l’8 Settembre, i lager” (2020).
Liberato il 9 marzo 1945 dai “ciechi strumenti della Provvidenza” (gli americani), rientra dopo qualche mese nella sua Patria. A Catania si laurea in Lettere Classiche e poi comincia ad insegnare nei licei statali.
Una personalità forte e delicata
Durante la sua vita, Gerardo Sangiorgio raccontò più volte l’esperienza vissuta. I terribili giorni nella “disumanizzante” prigionia, dove, assieme agli altri deportati, soffrì il freddo, la fame e violenze di ogni tipo, tanto da divenire “l’ombra di sé stesso”. Nella sua memoria rimasero indelebili i ricordi di quando per sopravvivere fu costretto a mangiare bucce di patate e a procurargliene anche ai suoi disgraziati compagni per non lasciarli morire, ottenendole dai soldati tedeschi in cambio di qualche sigaretta. Era terribile per lui raccontare, a distanza di anni, che solo per ottocento grammi di sovrappeso una mattina riuscì a scampare al forno crematoio.
Lui stesso indicherà quelli come i suoi “anni più belli” e i “giorni più tristi”.
Affabile sempre con tutti e di animo generoso e cristallino, ai ragazzi trasmette la sua esperienza e contagia nei cuori di chi lo ha come insegnante gli ideali intramontabili della libertà, della pace, dell’amore verso chi è debole e della ferma opposizione a ogni forma di oppressione.
Durante la vita, svariati i premi assegnatigli per le sue opere letterarie (poesie, liriche, prose…) lo fecero conoscere anche a livello internazionale come fine saggista, poeta e scrittore.
Una prospettiva diversa
Il figlio Placido ci riferisce che «in famiglia parlava degli anni trascorsi ad Arienzo, in casa della zia materna, immediatamente successivi alla Liberazione, come del periodo in cui era tornato alla vita, segnato profondamente nel fisico e nella mente. Ma con il chiaro dovere morale di volgersi al perdono e alla bellezza che salva. In queste lettere c’è tutta la tensione ideale della rinascita dopo l’orrore e la distruzione della guerra».
Oggi, le lettere ritrovate ci permettono di conoscere Gerardo Sangiorgio da una prospettiva diversa.
Da quegli scritti emerge un Gerardo figlio e fratello amato, che fa lezioni private gratuitamente per chi è indigente. Affiorano i tratti di un uomo sensibile al dramma vissuto, quando ritorna a Parma. Qui era stato catturato anni prima e rivede l’orologio del Palazzo Ducale rimasto fermo al momento del cannoneggiamento tedesco.
Si scopre una madre – Assunta Fugaro – apprensiva e premurosa. Scrive al figlio di non far tardi la sera e di coprirsi bene (lei lo aveva visto partire dalla Sicilia raffreddato). Si informa se avrà possibilità di trasferimento in un istituto più vicino. Raccomanda alla sorella Lucia di vegliarlo con cura anche la notte (pare avesse ancora gli incubi dovuti ai forti traumi subiti).
Emerge un padre – Placido – tenero e grato, che lo considera un «gioiello», un figlio «rinato… dalle sofferenze della dura guerra» da cui è rimasto profondamente segnato. Ed esprime la sua commossa riconoscenza per aver ricevuto un paio di scarpe comprate da Gerardo con i primi stipendi da professore.
Parla la sorella Italia, per informarlo del suo lavoro come insegnante elementare. Poi il fratello Francesco, disposto ad aiutarlo in questa nuova fase di vita. E anche il fratello Luigi, per chiedergli, tra l’altro, suggerimenti sul mondo della scuola, alludendo anche alla sua vicinanza al giornale del Comitato di Liberazione Nazionale. E ancora, gli zii e gli amici. Tra loro, Vincenzo Merola, figlio del suo preside, che nel 1948 gli aveva dedicato il volume “Sulla via dell’arte”. Un omaggio alla sua pura e cristallina amicizia ed in segno di riconoscimento delle sue doti di rettitudine e bontà.
La corrispondenza in “negativo”
Nella corrispondenza “in negativo”, fatta cioè di sole lettere in entrata, troviamo parole semplici ma cariche di sentimenti.
Frasi spesso tristi, frutto di un lavoro interiore, dalle quali si intuisce il travaglio di una intera famiglia e che a rileggerle, nonostante il buio di quella notte durata anni, danno una sensazione di forza e di speranza nella vita e nell’umanità pur se, a dirla con Antonio Tabucchi, «la Bestia che abitò quei carnefici è sempre in agguato e si aggira per il mondo».
In questi messaggi teneri e coraggiosi scopriamo nuove tessere per comporre il mosaico della personalità di un uomo che ancora oggi ha molto da dire alle nuove generazioni.
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Cultura
W San Placido: il santo del popolo che almeno per un giorno ci rende comunità
Il Patrono di Biancavilla: di fronte a tradizioni ridotte a farsa, l’unica certezza resta quella del 5 ottobre
In un tempo di storiografie deboli, di identità incerte, di farse battezzate a tradizioni, il biancavillese ha in sé una sola certezza: il 5 ottobre viene san Placido. E non se ne fa, se il programma civile (dopo quello delle funzioni) quest’anno si intesta con un generico e mostoso “Ottobre in festa” (bisognerebbe capire cosa abbia fatto derogare all’attesa e gioiosa “Festa di San Placido” l’ibrida locuzione dall’indifferente gusto oltralpino, considerando che gli eventi in programma iniziano a fine settembre e non vanno oltre la prima settimana del mese successivo).
Ma San Placido, si sa, è festa di città. La festa. Di questa città. Il Benedettino non è santo di giaculatorie, litanie e piagnistei. È quasi impossibile, infatti, trovare un concittadino che conosca due righe, due, di una qualche preghiera dedicata al Patrono. Non a caso l’omonima novella di Federico De Roberto, ambientata a Biancavilla, ha avvio nel palazzo comunale e non in chiesa (si veda il volume pubblicato da Nero su Bianco Edizioni). Infatti, a differenza degli altri protettori, il martire è il cuore collettivo della società che si rigenera: il solo che per esistere non ha bisogno di ancoraggi alla fondazione.
Una festa di tutti, nessuno escluso
Santo ghibellino e socialista, di popolo: mette tutti d’accordo. Nessuno si sente escluso dalla festa. Tra un pasto luculliano e un vestito nuovo, una luminaria e uno sparo, una bancarella e un cantante, una crispella e un pezzo di torrone, in un giro di giostra, ce n’è per tutti. Si capisce che il culto di Placido risulta funzionale a un certo clericalismo, mentre non si dà per scontato il contrario.
Duole, però, che le tradizionali mongolfiere siano sparite al seguito della corsa dei cavalli, e la fiera del bestiame non ritorna a prendere posto, seppure rivista, nel calendario: quanto sarebbe atteso per i più piccoli, ad apertura di festività, un evento di promozione all’adozione degli animali e di conoscenza delle specie protette del Parco dell’Etna, quando le politiche degli ultimi governi si muovono a favore di educazione e terapia con gli animali.
Il Santo “civile” lontano da ori e pompe
È figura identitaria pop quella di Placido. Rifugge da ori e da pompe. Accondiscende alle messe, ma resta il Santo civile. E mantiene carattere del divino nella più occidentale delle tradizioni: quella di avere vizi umanissimi, ricorrere a una padella per difendere la sua salsiccia, facendo nero l’omologo adranita, e si tiene caro il territorio dal quale non accenna ad allontanarsi, pena mollare una gran pedata ai limitrofi trafugatori. Quanti nonni raccontano, ancora, queste vicende ai nostri occhi incantati di pargoli di sempre.
Santo del mito, più che del rito. Nel mutamento demografico e nell’ibridismo culturale, la sua festa – cerniera tra le stagioni e spartiacque dell’agenda nostrana – si perpetua e ci fa comunità. Per un giorno. E dai vecchi barbanera della Penisola ai calendari rurali riemerge Biancavilla nel novero delle feste nazionali, per il suo San Placido. Lo stesso al quale era intestata la prima banca popolare di microcredito: “Cassa rurale San Placido”.
Ma oggi, per una decina di minuti, per noi, i botti non saranno quelli dei notiziari atroci, della gragnuola che si abbatte nel medio oriente e nell’est dell’Europa. La disperazione anche per quest’anno è rimandata. E sarà bello trovarci ancora a mezzogiorno, senza classi, senza titoli, senza miseria all’uscita festosa del monaco rubicondo, con l’istinto condiviso di afferrare un rettangolino di carta colorata e leggerci: “W San Placido”!
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