Cultura
Quei versi poetici del 1844 scritti da una donna per il “canonico irriverente”
Ritrovato testo dedicato a padre Benedetto Viaggio da un’autrice (istruita e acculturata) d’epoca borbonica


Tra le carte che sto studiando per una pubblicazione su Benedetto Viaggio (Biancavilla 1822-1899) che avrà come titolo “Benedetto Viaggio, un canonico colto e irriverente nella Biancavilla dell’Ottocento”, ho trovato due poesie. Entrambe scritte da una donna biancavillese, Donna Giuseppa Rasà Raspagliesi, che aveva frequentazioni poetiche con il Viaggio.
La prima è un’esercitazione letteraria che disquisiva se era più utile il maiale o l’asino. La seconda è questa composizione di ringraziamento al padre Viaggio, che evidentemente l’aveva elogiata per una qualche composizione.
Mi è sembrato significativo proporla, sulle pagine di Biancavilla Oggi, nella giornata dell’8 marzo non perché in essa ci fossero particolari qualità letterarie ma perché in una Biancavilla ottocentesca borbonica, dove era raro trovare persone che sapessero leggere e scrivere, c’era una donna, madre di tre figli, piena di lavori domestici, che si cimentava in attività poetiche.
Nulla sappiamo di questa donna, se non quello che scrive lei. Non era certamente una popolana. Probabilmente una benestante, la cui famiglia illuminata le aveva consentito di studiare.
Non sempre il passato è così buio come ce lo immaginiamo. In quel momento, prima metà dell’Ottocento, a Biancavilla il comune con soldi suoi accudiva i bambini nati fuori dal matrimonio ed esposti alla ruota, pagando delle nutrici. E sosteneva un istituto per fanciulle dove si insegnavano arti femminili a leggere e a scrivere. Ancora adesso abbiamo i ruderi della Badia, istituto religioso locale a gestione comunale.
Per i gruppi sociali più elevati socialmente c’erano, diremmo ora, i salotti letterari e poetici. Ho trovato tra le carte di Benedetto Viaggio poesie che alcuni biancavillesi si scambiavano in apposite riunioni presso la Villa del Marchese delle Favare. Ho trovato anche delle poesie satiriche che venivano proclamate a dorso di mulo nella piazza del paese per Carnevale. Conosciamo la grande storia, ma sarebbe utile conoscere anche la storia locale.
In ringraziamento ai complimenti del P. Benedetto Viaggio, Agostiniano.
A li tanti cumplimenti
Ca mi aviti aieri scrittu,
Dignu Patri Binidittu,
Comu mai rispunniro’?
Iu ca sugnu na taccuna
Na mischina fimminedda,
Ca di mantu e di gunnedda
Sacciu sulu fari po’;
Chi nan sacciu maniari
Pinna e scriviri palora,
A riserva, e a stentu, fora
di lu sulu be e bà;
Chi pi forza solamenti
Tuttu quantu lu miu fari
Si riduci a lu filari,
e a nudd’autra abilità.
Chi d’intorno avi tri figghi,
Ca mi rumpinu la testa,
Né mai cessa la tempesta,
Anzi crisci sempri chiù.
E vui intanti siti chiddu,
Chi assai charu risplinditi,
Pi li meriti, chi aviti
Pi li rari qualità.
Chi pueta siti e granni
Veru figghiu d’Austinu,
Lu profunnu vpstru e finu
Gran talentu cui non sa?
Iu mi stringiu’ntra li robbi,
Iu non sacciu diri nenti,
Mentri a mia si fa presenti
Di vui tutta la virtù.
Iu già perdu li palori,
Mi abbarruu, mi cunfunnu,
Na cunfusa ‘ntra lu munnu
Cchiu di mia non ci sarà.
Acchugghiti vui fratantu
Chista mia cunfissioni
Di la gran confusioni,
Ca na stupida vi fa.
E benignu permittiti
Ch’in conchiuda, ccu li rimi
Di un egregiu, d’un sublimi
Gran poeta ca ci fu;
Chi incantau, chi, ccu la nota
Sua virtù, cantau una vota
Ntra sti termini accuussi.
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Cultura
Sentirsi sfiniti e fiacchi: quando manca la “valìa”, tutte le forze vanno via
Una voce usata nella poesia sette-ottocentesca e oggetto di recupero letterario in opere contemporanee




Quando ci sentiamo sfiniti, fiacchi, senza nessun vigore fisico, a Biancavilla e altrove diciamo frasi come mi manca a valìa, nan ci àiu a valìa di fari nenti ecc.; èssiri senza valìa corrisponde a “essere fiacco”. La parola valìa, infatti, significa “vigore fisico, forza, gagliardia, energia”, ed è usata soprattutto in frasi negative, come quelle che abbiamo visto o come quest’altra di area messinese: non àiu valìa mancu mi moru “non ho nemmeno la forza di morire”, per dire, ironicamente, che si è completamente stremati.
A commento di uno dei canti popolari di Modica, Serafino Amabile Guastella scrive che valìa è un «bellissimo vocabolo esprimente non solo la forza ma anche la volontà di volerla adoperare». Anche noi diciamo mi passàu a valìa di manciàri, di parrari … cioè “non ho più voglia di mangiare, di parlare …”. Ma diciamo anche, con un po’ di impazienza mista a ironia, avi na valìa …! quando qualcuno continua a fare qualcosa che ci dà fastidio.
Altri significati, adoperati qua e là in Sicilia e registrati dal Vocabolario Siciliano (V vol.), sono “attitudine al lavoro”, “operosità”, “abilità, capacità, valentìa”, “valore, importanza” ecc. Qui è il caso di citare due proverbi: il primo recita amuri ppi-fforza nun avi valìa “un sentimento non si può imporre”. L’altro dice cosi fatti ppi-fforza nun anu valìa “le cose imposte con la forza, o fatte contro voglia, non riescono bene, non hanno efficacia, si fanno lentamente e male e sim.”.
La voce, usata nella poesia dialettale sette-ottocentesca, è stata ed è tuttora oggetto di un recupero letterario nei romanzi contemporanei, a partire da Horcynus Orca (1975) di Stefano D’Arrigo:
… sentite valìa? V’inappetì la guerra o siete difettoso di cavallo per una qualche causa di natura?
In tempi più vicini a noi ritroviamo valìa in quattro scrittrici contemporanee. Intanto Silvana Grasso con il racconto Nebbie di ddraunàra (1993):
Loro, la ciurma, se ne stavano affilati, lì al Bastione, a mercare la valia dei muscoli, il colorito di mare, ingegnandosi a mentire un difetto che li rendesse meno richiesti per la pesca delle spugne.
E con il romanzo Il bastardo di Mautàna (1994):
E ancora Nenno seguitava sino al Castelluccio «il sole se lo mangia il cervello… il fiato si risparmia come la sarda salata e il pecorino coi vermi… lena ci vuole… lena e valìa…»
Segue Silvana La Spina, prima col romanzo La creata Antonia (2001):
Dopo di che si avviano i due verso lo scalone, salgono le rampe, a una a una il cavaliere, a due a due il capocomico per dimostrare la valìa delle gambe e la prestanza dell’uomo.
Poi con Uno sbirro femmina (2007):
«Ha confessato?» sentiva che non aveva voglia né valìa di mettersi a litigare proprio davanti al ragazzo con il suo Capo. «Sissignore, ha confessato».
E infine (almeno per ora) con La continentale (2014):
La ragazzina si tira indietro a malincuore mentre la nonna riprende il cordoglio, ossia il racconto cantato sulla valìa del defunto, la sua forza, il suo senso dell’onore: Ah com’eri beddu, ardenti e sciaurusu!
Come Silvana La Spina, veneta di nascita, ma catanese di adozione, anche Giovanna Giordano, milanese di nascita, vive e lavora a Catania, dove respira il siciliano, come nell’ultimo romanzo mondadoriano, Il profumo della libertà (2021):
Antonio era sveglio a cercare una valigia, suo padre a chiedersi dove aveva sbagliato, la moglie a tramare contro quel viaggio di mare e suo fratello Placido lo sentiva girare e firriare in casa e in campagna senza nessuna valìa di dormire neppure lui.
E infine, ma l’elenco potrebbe continuare con altri scrittori, l’esordiente Linda Barbarino, con il romanzo La Dragunera (2022):
«La valìa di masculu quella ci tolse. Neanche a questo è capace!» E faceva la mossa volgare col pugno a significare quello che intendeva dire.
Documentata solo in Sicilia, la voce è registrata dalla lessicografia a partire dal XVII secolo ed è un prestito dallo spagnolo valìa “vigore”, derivato a sua volta da valer, ed è attestato sin dal 1140. Dallo spagn. valìa deriva l’agg. valioso che è stato adattato come prestito nell’italiano antico balioso “vigoroso, baldanzoso” e usato nelle da Giuseppe Cesare Abba nelle Noterelle di uno dei Mille (1893):
Due cavalli bianchi e baliosi che starebbero bene tra le gambe di due dragoni, ci portano via, tirando questa carrozza da prìncipi. Romeo Turola sonnecchia, io noto.
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