Cultura
La bellezza dei “calanchi”, set della serie Netflix de “Il Gattopardo”
Riflettori accesi ancora una volta su una porzione di territorio suggestiva e spettacolare
I “Calanchi del Cannizzola”, nel territorio di Centuripe, tra i Monti Erei e l’Etna, e l’area a valle della “Big Bench” installata in una terrazza panoramica su un terreno del Comune di Biancavilla, affittato alla famiglia Capizzi. Sono due tra i luoghi oggetto delle riprese della nuova serie targata Netflix e ispirata al celebre romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, “Il Gattopardo”.
«Desidero ringraziare l’amministrazione comunale e, in particolare, il sindaco di Centuripe, Salvatore La Spina, per aver reso possibile tutto ciò fornendo le necessarie autorizzazioni e sistemando le strade interessate dalle riprese nel territorio di proprietà dello stesso comune», dichiara a Biancavilla Oggi, Francesco Capizzi, imprenditore agricolo biancavillese da tempo impegnato nella valorizzazione dell’area.
La bellezza paesaggistico-naturalistica dei “calanchi” – o, come vengono chiamati a Biancavilla, “valanghi” – è già stata oggetto di innumerevoli video amatoriali con il drone e trasmissioni televisive, oltreché di altre produzioni cinematografiche e musicali (per esempio di Colapesce e Dimartino).

Una serie in sei episodi
Adesso arriva la produzione Netflix. Il cast vede come protagonisti Kim Rossi Stuart (don Fabrizio Corbera, principe di Salina), Benedetta Porcaroli (Concetta), Saul Nanni (Tancredi) mentre Deva Cassel, la figlia di Vincent Cassell e Monica Bellucci, sarà Angelica. Nel cast anche Paolo Calabresi, Francesco Colella, Astrid Meloni e Greta Esposito.
Ambientata nella Sicilia dei moti preunitari del 1860, la serie ha come protagonista don Fabrizio Corbera, principe di Salina, che incarna l’aristocrazia siciliana minacciata dall’unificazione italiana e che si rende conto che il futuro della sua casata e della sua famiglia è a rischio. Per non soccombere, è costretto a stringere nuove alleanze, anche se questo significa andare contro i suoi principi, fino a dover compiere una scelta assai ardua: un matrimonio che salverebbe la sua famiglia, quello tra la ricca e bellissima Angelica e suo nipote Tancredi, ma che spezzerebbe il cuore della sua adorata figlia Concetta.
La serie, in sei episodi, è diretta da Tom Shankland e prodotta da Fabrizio Donvito, Daniel Campos Pavoncelli, Marco Cohen e Benedetto Habib per Indiana Production e da Will Gould, Frith Tiplady e Matthew Read per Moonage Pictures e sbarcherà solo su Netflix. Il direttore della fotografia è Nicolaj Bruel. I costumi della serie sono di Carlo Poggioli ed Edoardo Russo, le scenografie di Dimitri Capuani. Le musiche originali sono di Paolo Buonvino.

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Cultura
Ficurìnnia nustrali, trunzara o bastarduna ma sempre da “scuzzulari”
Dalle varietà del succoso frutto alle varianti dialettali, tra tipi lessicali e significati metaforici


Se c’è una pianta che contrassegna fisicamente il paesaggio della Sicilia e la simboleggia culturalmente, questa è il fico d’India o, nella forma graficamente unita, ficodindia (Opuntia ficus-indica). Pur trattandosi infatti di una pianta esotica, originaria, come sappiamo, dell’America centrale e meridionale, essa si è adattata e diffusa capillarmente in tutto il territorio e i suoi frutti raggiungono le tavole di tutti gli italiani e non solo. A Biancavilla, la pianta e il frutto si chiamano ficurìnnia, ma in Sicilia si usano molte varianti, dalla più diffusa ficudìnnia a quelle locali, come ficadìnnia, ficalinna, ficarigna, fucurìnnia, ficutìnnia, cufulìnia ecc. Atri tipi lessicali sono ficupala, ficumora, mulineḍḍu.
Esistono inoltre specie non addomesticate, come l’Opuntia amyclaea, con spine molto pronunciate, sia nei cladodi sia nei frutti, poco commestibili, e usate principalmente come siepi a difesa dei fondi rustici. In Sicilia, questa si può chiamare, secondo le località, ficudìnnia sarvàggia, ficudìnnia spinusa, ficudìnnia di sipala, ficudìnnia masculina, ficudìnnia tincirrussu. Per distinguerla dalla specie ‘selvatica’, quella addomesticata è in Sicilia la ficurìnnia manza, di cui esistono varietà a frutto giallo (ficurìnnia surfarina o surfarigna), varietà a frutto bianco (ficurìnnia ianca, muscareḍḍa o sciannarina [< (li)sciannarina lett. “alessandrina”]), varietà a frutto rosso (ficurìnnia rrussa o sagnigna), varietà senza semi (ficudìnnia senza arìḍḍari, nel Palermitano). I frutti pieni di semi si dicono piriḍḍari, quelli eccessivamente maturi mpuḍḍicinati o mpuḍḍiciniḍḍati, quelli primaticci o tardivi di infima qualità sono i ficurìnnia mussuti (altrove culi rrussi).
In una commedia di Martoglio (Capitan Seniu), il protagonista, Seniu, rivolto a Rachela, dice:
Almenu ti stassi muta, chiappa di ficudinnia mussuta, almenu ti stassi muta! … Hai ‘u curaggiu di parrari tu, ca facisti spavintari ‘dda picciridda, dícennucci ca persi l’onuri?
Come è noto il frutto del ficodindia matura nel mese di agosto, ma questi frutti, chiamati (ficurìnnia) nuṣṭṛali a Biancavilla, anche se di buona qualità, fra cui sono da annoverare i fichidindia ṭṛunzari o ṭṛunzara, in genere bianche, che si distinguono per la compattezza del frutto, non sono certo i migliori. Quelli di qualità superiore, per resistenza e sapidità, sono i bbastardoli, o, altrove, bbastarduna. Questi maturano tardivamente (a partire dalla seconda metà di ottobre) per effetto di una seconda fioritura, provocata asportando la prima, attraverso lo scoccolamento o scoccolatura, una pratica agricola che consiste nell’eliminazione, nel mese di maggio, delle bacche fiorite della pianta, che verranno sostituite da altre in una seconda fioritura. A Biancavilla e in altre parti della Sicilia si dice scuzzulari i ficurìnnia.
Per inciso, scuzzulari significa, da una parte, “togliere la crosta, scrostare”, dall’altra, “staccare i frutti dal ramo”. Dal primo significato deriva quello metaforico e ironico di “strapazzarsi”, in riferimento a persona leziosamente ed eccessivamente delicata, come nelle frasi staccura ca ti scòzzuli!, quantu isàu m-panareḍḍu, si scuzzulàu tuttu, u figghju! Così “di chi ha fatto una cosa trascurabile e pretende di aver fatto molto e di essersi perfino affaticato”. Inoltre, èssiri nam-mi tuccati ca mi scòzzulu si dice “di una persona assai gracile” oppure “di una persona molto suscettibile e permalosa”. Il verbo, infine, deriva da còzzula “crosta”, dal latino COCHLEA “chiocciola”.
Ritornando ai fichidindia, sono ovviamente noti gli usi culinari, la mostarda, il “vino cotto”, quelli dei cladodi, le pale, nella cosmesi o ancora nell’artigianato per realizzare borse di pelle vegan, ma essi, o meglio alcuni loro sottoprodotti, sono stati anche, in certi periodi, simboli di povertà. Quando, infatti, si faceva la mostarda, i semi di scarto venivano riutilizzati, ammassati in panetti e conservati. Si trattava di un prodotto povero di valori nutrizionali e dal sapore non certo gradevole come la mostarda. Si chiamava ficurìnnia sicca, locuzione divenuta proverbiale a volere indicare non solo un cibo scadente ma perfino la mancanza di cibo. Cchi cc’è oggi di manciàri? ‒ Ficurìnnia sicca! Cioè “niente!”
PER SAPERNE DI PIU’
“La Sicilia dei cento dialetti” di Alfio Lanaia
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