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Cultura

La Biancavilla agricola tra ‘700 e ‘800 nei versi del poeta Placido Cavallaro

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L’ultimo (in attesa del prossimo) saggio di Alfio Grasso è dedicato a un’opera del più famoso poeta di Biancavilla: Antichi versi contadini. L’agricoltura nella poesia dialettale di Placido Cavallaro (1784-1866), Nero su Bianco Edizioni, Biancavilla 2018. Chi conosce la storia umana, politica e intellettuale dell’Autore non può non rimanere sorpreso del fatto che il Nostro si sia dedicato all’analisi di un’opera poetica, come le poesie di Placido Cavallaro. La sorpresa, tuttavia, svanisce ben presto, allorquando si aprono le prime pagine del libro e si scopre che anche questa sua fatica è coerente con la produzione divulgativa e scientifica di Alfio Grasso, autore, fra l’altro, di molte voci di carattere giuridico e agrario del Novissimo Digesto Italiano (Utet), di articoli pubblicati nella Rivista di Storia dell’agricoltura e di monografie dedicate alla legislazione relativa alla cooperazione e all’associazionismo. Ma, ancora più importante, perché più vicina nel tempo, nello spazio e nel contenuto, ci sembra l’edizione che Grasso ha curato e annotato del trattato Stato dell’agricoltura e pastorizia nel territorio di Biancavilla del canonico cavaliere don Salvatore Portal, Edizioni Officine grafiche, Palermo 2015.

Non sappiamo se si tratta di pure coincidenze, ma ci sembrano assai rilevanti i seguenti aspetti: il poeta Cavallaro (1784-1866) e il canonico Portal (1789-1754) erano conterranei, contemporanei e si sono occupati, con strumenti diversi, dello stesso argomento: l’agricoltura. Entrambi, inoltre, erano mossi dalle stesse preoccupazioni e miravano agli stessi fini: Cavallaro dice, nella prima ottava di carattere proemiale e programmatico, che Si la me forza non fussi mancanti / farria l’Accadimìa d’agricultura; il Portal da parte sua ritiene necessaria l’istituzione «delle scuole agrarie» (p. 34). Sebbene, dunque, non lo dica esplicitamente, anche Alfio Grasso ritiene che l’opera di Placido Cavallaro sia un trattato di Agricoltura in versi, sul modello, non tanto delle inattingibili, per un poeta analfabeta, Georgiche virgiliane, ma, come osserva Grasso con acribia filologica, sul modello della Buccolica di Giovanni Meli. Rispetto ai modelli letterari, tuttavia, l’autore de L’Agricultura attingeva a una lunga e collaudata esperienza personale.

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Dopo una Premessa e due capitoletti introduttivi dedicati, rispettivamente, ai poeti estemporanei di Biancavilla e al poeta Cavallaro, l’Autore si dedica all’analisi esegetica delle 58 ottave in endecasillabi a rima alternata che compongono L’Agricultura: a una parte introduttiva (9 ottave) seguono La cultivazioni di lu frummentu (15 ottave), La cultivazioni di la vigna (17 ottave), La cultivazioni di l’alivu (15 ottave) e la “chiusura” (2 ottave). A ogni ottava l’Autore fa seguire non tanto una traduzione ad verbum, ma una vera e propria spiegazione, soffermandosi sul lessico specifico dell’agricoltura tradizionale, in uso nell’Ottocento e nella prima metà del Novecento e conosciuto da Grasso sia per esperienza diretta, sia attraverso una formazione teorica e scientifica. Accompagna il testo un dovizioso apparato di note nel quale il Nostro dà conto delle sue scelte interpretative, dei confronti con altre opere di carattere tecnico-agrario, storico, economico, etno-antropologico e letterario. Ecco, dunque, per fare qualche esempio, che il lettore viene informato sul significato che avevano in quel periodo i termini burgisi, burgisatu, universitati, o quelli tecnico-specialistici dell’agricoltura, piertica, iuvu, spuria, jermitu, lignaci, magghiolu ecc.

Chi meglio di Alfio Grasso, dunque, avrebbe potuto gettare luce su un’opera in versi che parla di agricoltura? Chi meglio di lui sarebbe stato in grado di condurci per mano tra le ottave siciliane di un poeta estemporaneo, che dicono, e che diceva di se stesso, che fosse analfabeta, «chi affattu nun canusci la scrittura»? Permettetemi di nutrire qualche dubbio sul preteso analfabetismo del Cavallaro, dubbio per altro espresso dallo stesso Grasso, quando scrive: «Cavallaro dà contezza del suo sentire e, quindi, di conoscere non solo il biblico Adamo, ma anche personaggi meno antichi dell’arte. Nella poesia A se stissu vecchiu fa riferimento a Raffaello Sanzio […] a dimostrazione che nonostante “nun sa di littra” ne aveva la massima cognizione» (p. 28 n.). Certo, sono da chiarire molte vicende legate alla registrazione e alla trasmissione dei testi attribuiti a Cavallaro, ma intanto osserviamo con favore il fatto che Grasso metta a confronto due edizioni di uno stesso testo (p. 17 n.), rilevi analogie e differenze e ne avanzi una plausibile spiegazione. Per fare comprendere pienamente al lettore gli Antichi versi contadini di Placido Cavallaro lo studioso ricostruisce, dunque, l’ambiente storico, economico e culturale di Biancavilla e del suo territorio tra il XVIII e XIX secolo, offrendoci un credibile spaccato della società del periodo, dei suoi problemi e delle sue aspirazioni. Un’opera di esegesi letteraria, certo, quella che ci offre Alfio Grasso, ma anche e soprattutto un invito alla conoscenza della storia, uno degli strumenti più importanti per riflettere sul presente, per sapere da dove veniamo e per cercare di capire chi siamo.

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Cultura

La “volta” ritrovata: l’arcivescovo “svela” gli affreschi settecenteschi restaurati

Prezioso patrimonio di Biancavilla: nella chiesa dell’Annunziata risplendono le opere di Giuseppe Tamo

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Un’opera restituita alla luce, memoria risvegliata, un segno di bellezza che attraversa il tempo: così Biancavilla ha accolto la presentazione ufficiale del restauro degli affreschi della Chiesa dell’Annunziata.

La cerimonia si è aperta con la celebrazione eucaristica presieduta da Mons. Luigi Renna, arcivescovo di Catania, seguita dalla conferenza di presentazione dei lavori della volta: un’opera ora visibilmente più luminosa, liberata dalla patina del tempo, da ritocchi dissonanti e dai cedimenti che avevano compromesso la sua integrità visiva e strutturale.

Un gioiello dentro uno scrigno

A introdurre e presentare l’incontro Dino Laudani, presidente della Confederazione diocesana delle confraternite, che ha ricordato come la Chiesa dell’Annunziata – autentico monumento cittadino – sia stata oggetto, negli ultimi decenni, di molteplici interventi conservativi. «Un gioiello dentro uno scrigno di fede e di arte», ha detto Laudani, sottolineando la continuità di un impegno collettivo nel custodire la bellezza.

Il parroco, don Giosuè Messina, ha ricostruito le origini dell’attuale restauro: «Tutto è iniziato nell’ottobre 2021. Dopo una pioggia battente, della polvere iniziò a cadere da una fessura, aperta dal terremoto del 2018. Fu un segnale. Da lì, con prudenza e speranza, partì il lungo iter verso il restauro». Un cammino reso possibile dal lascito testamentario della signora Maria Zammataro (39mila euro), dai 10mila euro di residui del fondo messo a disposizione della parrocchia da padre Placido Brancato (per quasi cinquant’anni parroco) e dalla generosità dei fedeli (poco più di 4mila euro). Il preventivo iniziale di 73.800 euro è salito a 82mila, coperto in gran parte da questi fondi.

Il sindaco Antonio Bonanno, presente all’incontro, ha annunciato lo stanziamento di 20.000 euro da parte del Comune per contribuire al saldo delle spese residue per un’opera che valorizza e impreziosisce la nostra città.

Una storia mai del tutto scritta

Il professor Antonio Mursia ha arricchito la conferenza con un’ampia contestualizzazione storica. Un documento del 1872 del Prefetto di Catania chiedeva una copia dell’atto di fondazione della chiesa: ma nemmeno allora, il prevosto fu in grado di fornirne una. Solo agli inizi del Novecento, lo storico Placido Bucolo riesce a ricostruire la storia della chiesa. A volerne la costruzione fu alla fine del Cinquecento Dimitri Lu Iocu, giurato della Terra di Biancavilla: un’iniziativa non solo religiosa, ma anche civile e politica. Nel 1714, grazie a un lascito di Maria Carace, si avviò l’ampliamento della chiesa, su progetto del magister Longobardus, figura di spicco nella progettazione ecclesiastica della diocesi.

Il restauratore: «Sobrietà e impatto visivo»

Il momento più tecnico dell’incontro è stato l’intervento del restauratore Giuseppe Calvagna. Gli affreschi della volta, realizzati nel Settecento da Giuseppe Tamo, erano stati eseguiti con la tecnica della pittura a secco, scelta versatile ma fragile nel tempo. Le infiltrazioni d’acqua, i terremoti e restauri maldestri effettuati tra Ottocento e Novecento – alcuni con latte di calce – avevano offuscato l’opera originale, coprendone i tratti e minacciandone la stabilità.

Il lavoro di restauro ha richiesto interventi strutturali complessi: consolidamento dell’intonaco con resine, fissaggio del colore per fermarne il distacco, rimozione di croste dure e sedimentazioni. Si è poi proceduto alla ricostruzione morfologica delle lacune e infine alla reintegrazione pittorica con colori ad acquerello, rispettando le tecniche conservative. «In alcune parti non abbiamo trovato tracce originarie – ha spiegato Calvagna – ma l’obiettivo è stato restituire leggibilità e armonia. Il risultato è un’opera sobria, equilibrata e di forte impatto visivo».

L’architetto Antonio Caruso, che ha diretto e mediato tra i diversi professionisti coinvolti, ha posto l’accento sull’importanza della manutenzione ordinaria. «Le opere architettoniche e decorative non sono eterne: richiedono attenzione costante, altrimenti rischiano danni irreversibili».

Il vescovo: «Immagini che toccano il cuore»

A chiudere, l’intervento dell’Arcivescovo Renna, che ha dato al restauro un significato teologico profondo: «Queste immagini non sono semplici rappresentazioni. Esse raccontano la fede: dalle antiche profezie che parlano di Maria, fino agli Evangelisti, immagini mariane e cristologiche che ci introducono al mistero della salvezza e che parlano fino ai nostri giorni restituendoci significati profondi. Come la simbologia dei fiori e della natura che fiorisce, segno più bello della redenzione dell’uomo. Nel ciclo possiamo trovare patristica, teologia, dogmatica, in un racconto che tocca ancora oggi il cuore dei fedeli.

Oggi, tra le volte luminose dell’Annunziata, quegli affreschi sembrano custodire una memoria silenziosa. Non parlano solo del passato, ma anche del presente e del futuro. Restano lì, tra luce e ombra, a ricordarci che ogni bellezza custodita è anche una forma di resistenza – contro l’oblio, contro il tempo, contro l’indifferenza.

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Cultura

Il Corpus Domini a Biancavilla: festa del pane, della terra e… dei nuovi immigrati

Non solo rito religioso, ma anche memoria agricola e ponte tra passato contadino e presente multiculturale

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Mentre la sfera del sole raggiunge il suo punto più alto nel cielo, riscaldando le giornate della Piana di Catania, a Biancavilla comincia un rituale antico, scandito dal ritmo della natura: è il tempo della mietitura del grano. Un tempo, questo, che significava benessere e sostentamento per l’intera comunità. La terra, scura e generosa alle pendici dell’Etna, restituiva mesi di attesa e di lavoro con il frumento dorato, simbolo di ricchezza e sopravvivenza.

Il grano dava da mangiare a tutti: non solo ai proprietari dei campi, ma anche e soprattutto alle centinaia di braccianti impiegati a mietere, trebbiare e mondare i preziosi chicchi. In tempi difficili, segnati dalla miseria e dalla fame, l’abbondanza di un raccolto costituiva motivo di festa: la fatica era ripagata dalla certezza che per un altro anno si sarebbe avuto pane sulla tavola.

“U Signuri” e i quartieri in festa

In questo stesso mese di giugno, che prelude all’estate, Biancavilla celebra una delle sue feste più sentite: u Signuri. Una festa che unisce il sacro al quotidiano, il cielo e la terra, e che parla proprio del pane spezzato, dell’Eucaristia che diventa presenza divina tra la gente.

Il caldo estivo fa uscire di casa anche i più restii, e “a chiazza” si anima di voci, volti, incontri. È davvero la festa dei quartieri, della cooperazione tra vicini di casa che si traduce in bellezza.

Cominciando dalla Chiesa Madre, per un’intera settimana ha luogo, a turno in tutte le parrocchie, la processione d’a Sfera: il SS. Sacramento racchiuso dentro l’ostensorio che coi suoi raggi dorati richiama quelli del sole luminoso, generoso e forte.

Gli altarini con le lenzuala bianche

Un tempo, quando esisteva una sola parrocchia — la Chiesa Madre — era da lì che partiva l’unica processione. Ma dopo il 1952, con la nascita delle nuove parrocchie, ciascuna ha iniziato a organizzare la propria, coinvolgendo fedeli e volontari nel proprio territorio. E così ogni sera, tra le strade dei quartieri, si visitano sette, otto, anche dieci altarini preparati con cura e devozione agli incroci: strutture semplici, realizzate con assi di ferro o di legno, ricoperte di lenzuola bianche e ornate di fiori, cuscini, candele e luci.

Il sacerdote si ferma a ogni altarino per impartire la benedizione. Subito dopo esplodono le note della banda musicale – prima molto più diffuso, negli ultimi anni un po’ più raramente – e lo sparo di qualche mortaretto che echeggia in tutto il paese, mentre dai balconi piovono petali di fiori e si alzano i canti e le preghiere. Gli stendardi delle confraternite e i bambini, vestiti con gli abiti della Prima Comunione, aprono la strada a questo corteo sacro e gioioso, che celebra il pane spirituale ma anche, implicitamente, quello materiale, frutto della terra e del sudore dell’uomo, simbolo della prosperità che si spera per l’anno a venire.

Il pane che unisce: dalla terra ai nuovi immigrati

Non solo rito religioso, la festa del Corpus Domini è memoria agricola, è gesto collettivo, è riflesso simbolico del dono ricevuto dalla terra: il grano triturato, impastato e cotto diventa pane da condividere.

Oggi, mentre molti rimangono indifferenti, nelle piazze e tra le strade a osservare da lontano questa tradizione, ci sono anche nuovi abitanti, nuovi vicini di casa: marocchini, rumeni, albanesi, tunisini arrivati a Biancavilla in cerca di lavoro e di futuro. Molti di loro lavorano nei campi, partecipano alla mietitura, apprendono il valore della terra di Sicilia e, a poco a poco, si integrano nel tessuto vivo del paese.

Anche se le differenze religiose o culturali restano, sono sempre più frequenti i segni di partecipazione condivisa. Pure se spesso guardano stupiti perché qualcuno di quei gesti rimane incomprensibile e strano, molti si fermano a osservare in silenzio le processioni, riconoscendo nella devozione di quelle persone che sfilano, qualcosa di familiare, che parla anche a loro, nei loro linguaggi, nelle loro fedi.

Il pane, allora, torna ad essere simbolo universale: spezzato, condiviso, celebrato. È un ponte tra generazioni e culture, tra passato contadino e presente multiculturale.

Tradizione che si rinnova

Nel clima pomeridiano di questo bel periodo dell’anno, Biancavilla si racconta attraverso la festa del Corpus Domini: una tradizione che si rinnova, che accoglie e che tiene insieme. Il mistero del pane e della presenza divina ci parla anche del lavoro dei campi e della forza della comunità, in un rituale che unisce il sacro e l’umano, il locale e il globale, il passato e il futuro e si riscopre non solo paese agricolo ma comunità che accoglie, che ascolta e che vuole evolversi senza dimenticare.

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