Cultura
“La conquista” del Karakorum tra fiction e realtà nel libro di Longo




Un momento della presentazione: da sinistra, Salvuccio Furnari, Giovanni Scuderi, Orazio Longo e Vittorio Fiorenza
Presentato a Biancavilla, su iniziativa del Lions club, il libro del giornalista adranita, pubblicato per le Edizioni Efesto. Una equilibrata fusione tra “cronaca” e racconto romanzato su una spedizione italiana in Pakistan del 1986.
Una spedizione dimenticata. Da Pescara ai 7016 metri di una delle vette del Karakorum, in Pakistan. Una conquista tutta italiana, che nell’estate del 1986 non ha avuto alcuna eco mediatica. Caduta nell’oblio per trent’anni. Eppure è stata una missione che ha richiesto particolare impegno e coraggio, segnata da un drammatico incidente, al punto da costringere gli scalatori a cambiare i propri programmi. Abruzzo Peak è il nome dato alla cima inesplorata prima da allora e raggiunta dai nostri rocciatori.
Quell’impresa, adesso, viene rievocata per merito del giornalista Orazio Longo, che proprio su quei fatti ha scritto il suo ultimo libro, pubblicato dalle Edizioni Efesto e presentato a Biancavilla, su iniziativa del Lions club.
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Prendendo spunto dal diario di viaggio di uno degli scalatori, Longo è sfuggito al rischio di scrivere uno dei tanti (e noiosi) libri sulle scalate di montagne innevate. Ed ha inaugurato un genere, attraverso il quale al racconto reale ha innestato, con notevole efficacia narrativa e giusto equilibrio, il racconto romanzato, dando al contempo adeguata dignità a quelle memorie storiche ingiallite, chiuse per troppo tempo in un cassetto.
«La conquista. In bilico nella vetta senza nome» è quindi un libro “docu-fiction”, che sdogana, ben oltre gli addetti ai lavori, le storie di scalate di alte vette, rendendole avvincenti anche ai non appassionati del genere.
Per Efesto (casa editrice romana fondata e diretta dal biancavillese Alfredo Catalfo), Orazio Longo ha pubblicato nel 2014 la raccolta di racconti “Neanche a dirlo, eri bellissima”. Ed ora “La conquista”. Alla prima presentazione a Biancavilla nell’incontro del Lions club, ne seguiranno una ad Adrano e una terza al castello Ursino di Catania.
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Cultura
Sentirsi sfiniti e fiacchi: quando manca la “valìa”, tutte le forze vanno via
Una voce usata nella poesia sette-ottocentesca e oggetto di recupero letterario in opere contemporanee




Quando ci sentiamo sfiniti, fiacchi, senza nessun vigore fisico, a Biancavilla e altrove diciamo frasi come mi manca a valìa, nan ci àiu a valìa di fari nenti ecc.; èssiri senza valìa corrisponde a “essere fiacco”. La parola valìa, infatti, significa “vigore fisico, forza, gagliardia, energia”, ed è usata soprattutto in frasi negative, come quelle che abbiamo visto o come quest’altra di area messinese: non àiu valìa mancu mi moru “non ho nemmeno la forza di morire”, per dire, ironicamente, che si è completamente stremati.
A commento di uno dei canti popolari di Modica, Serafino Amabile Guastella scrive che valìa è un «bellissimo vocabolo esprimente non solo la forza ma anche la volontà di volerla adoperare». Anche noi diciamo mi passàu a valìa di manciàri, di parrari … cioè “non ho più voglia di mangiare, di parlare …”. Ma diciamo anche, con un po’ di impazienza mista a ironia, avi na valìa …! quando qualcuno continua a fare qualcosa che ci dà fastidio.
Altri significati, adoperati qua e là in Sicilia e registrati dal Vocabolario Siciliano (V vol.), sono “attitudine al lavoro”, “operosità”, “abilità, capacità, valentìa”, “valore, importanza” ecc. Qui è il caso di citare due proverbi: il primo recita amuri ppi-fforza nun avi valìa “un sentimento non si può imporre”. L’altro dice cosi fatti ppi-fforza nun anu valìa “le cose imposte con la forza, o fatte contro voglia, non riescono bene, non hanno efficacia, si fanno lentamente e male e sim.”.
La voce, usata nella poesia dialettale sette-ottocentesca, è stata ed è tuttora oggetto di un recupero letterario nei romanzi contemporanei, a partire da Horcynus Orca (1975) di Stefano D’Arrigo:
… sentite valìa? V’inappetì la guerra o siete difettoso di cavallo per una qualche causa di natura?
In tempi più vicini a noi ritroviamo valìa in quattro scrittrici contemporanee. Intanto Silvana Grasso con il racconto Nebbie di ddraunàra (1993):
Loro, la ciurma, se ne stavano affilati, lì al Bastione, a mercare la valia dei muscoli, il colorito di mare, ingegnandosi a mentire un difetto che li rendesse meno richiesti per la pesca delle spugne.
E con il romanzo Il bastardo di Mautàna (1994):
E ancora Nenno seguitava sino al Castelluccio «il sole se lo mangia il cervello… il fiato si risparmia come la sarda salata e il pecorino coi vermi… lena ci vuole… lena e valìa…»
Segue Silvana La Spina, prima col romanzo La creata Antonia (2001):
Dopo di che si avviano i due verso lo scalone, salgono le rampe, a una a una il cavaliere, a due a due il capocomico per dimostrare la valìa delle gambe e la prestanza dell’uomo.
Poi con Uno sbirro femmina (2007):
«Ha confessato?» sentiva che non aveva voglia né valìa di mettersi a litigare proprio davanti al ragazzo con il suo Capo. «Sissignore, ha confessato».
E infine (almeno per ora) con La continentale (2014):
La ragazzina si tira indietro a malincuore mentre la nonna riprende il cordoglio, ossia il racconto cantato sulla valìa del defunto, la sua forza, il suo senso dell’onore: Ah com’eri beddu, ardenti e sciaurusu!
Come Silvana La Spina, veneta di nascita, ma catanese di adozione, anche Giovanna Giordano, milanese di nascita, vive e lavora a Catania, dove respira il siciliano, come nell’ultimo romanzo mondadoriano, Il profumo della libertà (2021):
Antonio era sveglio a cercare una valigia, suo padre a chiedersi dove aveva sbagliato, la moglie a tramare contro quel viaggio di mare e suo fratello Placido lo sentiva girare e firriare in casa e in campagna senza nessuna valìa di dormire neppure lui.
E infine, ma l’elenco potrebbe continuare con altri scrittori, l’esordiente Linda Barbarino, con il romanzo La Dragunera (2022):
«La valìa di masculu quella ci tolse. Neanche a questo è capace!» E faceva la mossa volgare col pugno a significare quello che intendeva dire.
Documentata solo in Sicilia, la voce è registrata dalla lessicografia a partire dal XVII secolo ed è un prestito dallo spagnolo valìa “vigore”, derivato a sua volta da valer, ed è attestato sin dal 1140. Dallo spagn. valìa deriva l’agg. valioso che è stato adattato come prestito nell’italiano antico balioso “vigoroso, baldanzoso” e usato nelle da Giuseppe Cesare Abba nelle Noterelle di uno dei Mille (1893):
Due cavalli bianchi e baliosi che starebbero bene tra le gambe di due dragoni, ci portano via, tirando questa carrozza da prìncipi. Romeo Turola sonnecchia, io noto.
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