Cultura
Biancavilla degli anni ’50-’70 nel libro del giornalista Giuseppe Petralia




Il giornalista biancavillese Giuseppe Petralia
“Ci fu un tempo in cui… frammenti di ricordi su fatti e personaggi”. Sarà presentato martedì 13 dicembre, alle ore 16, a Villa delle Favare l’ultimo libro del giornalista Giuseppe Petralia, pubblicato da “Algra Editore”.
All’incontro, promosso dall’Accademia Universitaria Bincavillese presieduta Rosa Lanza, sarà presente l’autore, che interverrà dopo un’introduzione di Salvuccio Furnari, cultore di storia locale.
«Il libro –si legge nella presentazione curata dal critico Sergio Sciacca– costituisce un contribuito significativo alla conoscenza del verismo. Di quello vissuto, estraneo alle invenzioni spettacolari o narrative, ma aderenti alla realtà. Osservato in prima persona da chi non pensa a costruire una bella pittura, ma solo consegna alla scrittura la fotografia dei decenni scomparsi».
Lo scritto riporta fatti, personaggi e storielle che Petralia ha vissuto e conosciuto negli anni ‘50-‘70 nella sua città natale, Biancavilla: dalle feste in famiglia ai periodi passati nell’Azione Cattolica, dai giochi che si inventavano alle monellerie messe in atto nel quartiere, dalle prime esperienze giornalistiche all’approdo come collaboratore del quotidiano “La Sicilia”. Petralia racconta, inoltre, le figure dei personaggi del paese, gli approcci con le ragazze e tanti altri fatti ed episodi lungo un trentennio.
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Cultura
È sempre così: per ogni mamma, i figli sono la “curinedda” del nostro cuore
Il termine esprime tenerezza e amore: deriva dal greco con il significato di “germoglio”




Fra le parole che le mamme usavano a Biancavilla per esprimere amore e tenerezza verso i figli e le figlie c’è curina, variamente declinato in espressioni come curineḍḍa!, curina dô ma cori!, curineḍḍa dâ mamma! ecc., tutte col significato di “amore mio!”, “cuore mio!”, “gioia dell’anima mia!” e sim.
Con questo tipo di significati la nostra parola è usata nei romanzi e racconti di Silvana Grasso, di cui diamo qualche esempio:
Ah Sasà! che hai combinato figlio mio?! Ah Sasà curina del mio cuore! E come ti salvo io?! …Recitava muto Cornelio (L’albero di Giuda, 1997).
Il Paradiso era per lui sentire il fischio d’un treno e un altro e un altro ancora nella curìna dell’anima (Disìo, 2005).
Le tasche delle sue giacche sciauriàvano di zagara anche dopo il bucato o forse era tutt’uno col naso quell’odore, tale intramato nella sua pelle, nella curìna dell’anima che nulla ci poteva, nemmeno il bagno nella vasca d’alluminio quando, una volta al mese, la signorina Anselma gli faceva la doccia calandogli di sopra alcuni secchi d’acqua calda. (dalla raccolta La ddraunàra, 2020).
Ma prima di assumere questo significato traslato (metaforico), la curina indica “la parte più interna e più tenera del cesto di una pianta”, in una parola “il garzuolo, il grumolo”, ad esempio della lattuga, la parte più interna e tenera che si preferisce per le insalate.
Estendendo l’indagine ad altre parti della Sicilia, troviamo che curina può indicare il “germoglio appena spuntato dal terreno”, le “foglie della palma nana, quelle più tenere e bianche” che nel Trapanese vengono tagliate, pulite dalle spine e fatte essiccare nella stagione estiva. Con esse si creano delle corde che gli artigiani locali intrecciano per la realizzazione di scope, ventagli, tappeti e borse (Custonaciweb). Per estensione indica la “treccia di capelli di una ragazza”. In area etnea orientale curina di parma si dice di una “ragazza buona, dal carattere mite”.
Altri significati figurati registrati qua e là in Sicilia considerano curina la “parte migliore di qualunque cosa”. Gli sbergi di curina sono, quindi, le “nocepesche di migliore qualità” e la frase èssiri di la curina può significare, a secondo delle località e delle fonti, a) “essere il preferito”, b) “essere molto scaltro, malizioso”, c) “essere uno dei principali esponenti della combriccola”. Arriviamo, per questa strada, infine, a un significato del tutto negativo con la locuzione laṭṛu di curina “ladro matricolato”.
Dal nome deriva (per parasintesi) il verbo scurinari. Usato transitivamente significa “togliere la parte più interna e più tenera, ad es. a una lattuga, a un finocchio ecc.”; negli usi intransitivi il verbo vale “germogliare delle piante a fusto non legnoso” e “crescere ben diritto, del castagno”. Dal verbo derivano l’agg. scurinatu “di castagno perfettamente diritto” e il nome scurinata “farina separata dal fiore”
Oltre che in Sicilia, curina o una var. è diffuso in Calabria, dove indica il “grumolo di lattiga o cavolo”, il “garzuolo”, il “cuore di una pianta” o la “cima di un monte”; in Basilicata dove il “lino pettinato”; il deriv, napoletano corìnola è la “roccata di lino”. Nella Calabria sett. troviamo ancora scurinare “cimare le piante” e il deriv. scurinatu “senza cima”, “disgraziato”.
Per chi si voglia cimentare, infine, nella ricerca dell’origine della parola, è certamente forte la tentazione di fare derivare curina da cori “cuore”. In realtà, la nostra voce deriva dal greco κορύνη (korýnē), usato da Teofrasto (371-278 a.C.) nel De historia plantarum col significato di “germoglio”.
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