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Premio nazionale per il poeta biancavillese Salvatore Greco

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Salvatore Greco nel momento della premiazione a Senigallia

Il poeta biancavillese 63enne Salvatore Greco (in paese è conosciuto da tutti come “u ragiunieri”) ha vinto il secondo premio di “Poesia nel borgo”, concorso nazionale di poesia in lingua italiana e dialettale.

Il suo componimento, intitolato “Qualcuno”, è stato apprezzato dalla giuria, che ha riservato parole entusiastiche per motivare il riconoscimento: «Per le significative immagini delle umane vicissitudini, per la sincerità e la semplicità con le quali è rappresentata la vita da cui ci si può riscattare, dimenticando le delusioni. Linguaggio chiaro e diretto».

L’evento è stato organizzato a Senigallia dall’Associazione promotrice Montignanese, dal Centro sociale Adriatico e dalla biblioteca comunale “Luca Orciari”.

Per Greco è stato un sogno nel cassetto che ha tenuto per più di 40 anni e che ora ha realizzato con la partecipazione a questo concorso. La sua prima partecipazione ad un’iniziativa poetica con versi che sono stati molto apprezzati. Emozionato il suo commento: «È bastato solamente un minuto per ripagare tutto il mio vissuto».

QUALCUNO
E’ quando vivere ormai, non t’importa,
all’improvviso senti bussare alla porta,
qualcuno, senza un’apparente ragione,
che ti scatena un’inspiegabile emozione.

Ricordi quel treno che non hai mai preso,
deluso da un giovane amore ti sei arreso,
in soffitta hai deposto valigie e bagagli
e tutti gli scritti, per lei, su bianchi fogli,
quel tuo talento che ti era stato affidato,
insieme al suo negato amore sotterrato .

Ora qualcuno ti dice che non è mai tardi,
prendi allora l’arco armato di nuovi dardi,
in quel buongiorno dell’anima mattutina,
dimentichi che hai passato la sessantina,
muta l’amore giovane dal corpo attraente
a nuova vita in una dolce anima sognante.

In soffitta vai a recuperare i vecchi bagagli
impolverati e ingialliti, sono i bianchi fogli,
quel talento nascosto vai a dissotterrare,
hai ritrovato la stima, ti puoi rivalutare.

La vita offre un’altra piccola possibilità
a te operaio che lavori con tanta umiltà,
ritorna a cantare le tue dolce melodie,
che il cuore detta nuovi versi di poesie.
nell’anima pone radici una nuova pianta,
così la vita può ricominciare da sessanta.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

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1 Commento

1 Commento

  1. giulia

    9 Settembre 2015 at 18:48

    Buonasera a tutti sono una biancavillese emigrata fuori, è bello sapere che abbiamo dei talenti nel nostro paesino. Mi ha fatto molto piacere leggere questa poesia molto bella semplice ma decisa , è vero la vita può ricominciare a qualsiasi età, bisogna avere il coraggio bravo sig. greco Complimenti………….

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Cultura

Anche il ministro della Cultura Sangiuliano si prende la “stagghjata”

Il termina indica un compito da svolgere, ma a Biancavilla è pure il nome di una contrada

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Questa infelicissima e tristissima dichiarazione del ministro della Cultura (sic!) è di qualche settimana fa: «Mi sono autoimposto di leggere un libro al mese. Un fatto di disciplina, come andare a messa». La lettura come sacrificio ed espiazione, dunque: una sorta di cilicio. C’è l’aspetto politico, pedagogico e culturale della dichiarazione. Ma anche religioso (ridurre l’andare a messa a un mero dovere, se non a un sacrificio, non è proprio il massimo per un credente). A noi che ci occupiamo di lingue e di dialetti, tutto ciò, però, ha fatto pensare a un modo di dire usato a Biancavilla.

Un modo che ci sembra calzante: pigghjàrisi a stagghjata, cioè “assumere l’incarico di portare a termine un lavoro entro un lasso di tempo stabilito” (exempli gratia «leggere un libro al mese»). La stagghjata era cioè “il compito, il lavoro da svolgere in un tempo determinato, spesso nell’arco di una giornata”. Dari a stagghjata a unu equivaleva ad “assegnare a qualcuno un lavoro da compiere in un tempo stabilito dopo di che potrà cessare per quel giorno il proprio servizio”.

In altre parti della Sicilia la stagghjata può indicare il “cottimo”. Ad esempio: ṭṛavagghjari ccâ / a la stagghjata “lavorare a cottimo”; “la quantità di olive da spremere in una giornata”; “la fine della giornata, il tramonto: ṭṛavagghjari finu â stagghjata lavorare fino al tramonto”; “sospensione da lavoro”, “slattamento, svezzamento”.

Con l’illusione di finire prima un lavoro, ancora negli anni ’80 del secolo scorso si sfruttavano i braccianti e gli operai dell’edilizia, soprattutto i manovali, i ragazzi minorenni. Ecco una testimonianza tratta da La speranza della cicogna di Filippo Reginella:

Tale lavoro si sviluppava quasi interamente con metodi manuali e magari con la promessa della famosa “stagghiata” che consisteva nel lavorare di continuo fino al completamento della struttura in corso di realizzazione e poi andare a casa qualsiasi ora fosse, come se potesse capitare di finire prima dell’orario ordinario: mai successo! Solo illusione!

Toponimo in zona Vigne

Il nome ricorre anche nella toponomastica del territorio di Biancavilla. Le carte dell’Istituto geografico militare (IGMI 261 II) ricordano il toponimo Stagghjata che indica dei vigneti a Nord del Castagneto Ciancio.

Anche il Saggio di toponomastica siciliana di Corrado Avolio (1937) ricorda i stagghiati di Biancavilla, col significato probabile di “terre date in affitto”.

Alle origini del termine

Cercando di risalire all’origine della nostra voce, ricordiamo, innanzitutto, che stagghjata deriva da stagghjari, un verbo dai molti significati. Tra questi ricordiamo i seguenti: “tagliare, troncare”, “fermare, interrompere il flusso di un liquido” (cfr. stagghjasangu “matita emostatica usata dai barbieri”), “delimitare, circoscrivere, da parte di più cacciatori, un tratto di terreno in cui si trova la selvaggina”; “convogliare i tonni verso la camera della morte della tonnara”; “sospendere momentaneamente il lavoro che si sta facendo”; “venir meno di una determinata condizione fisica:  a frevi mi stagghjau non ho più la febbre”.

Fra i modi di dire citiamo stagghjàricci a tussi a unu “ridurre qualcuno al silenzio”, stagghjari la vìa “impedire il passaggio”, stagghjari l’acqua di n-ciùmi “deviare l’acqua di un fiume”. Fra i composti con stagghjari, oltre al citato stagghjasangu, ricordiamo stagghjafocu a) “ostacolo per impedire che il fuoco si propaghi ai campi vicini quando bruciano le stoppie” e b) “striscia di terreno liberata da ogni vegetazione per circoscrivere un incendio”; stagghjacubbu “silenzio profondo”, negli usi gergali; stagghjapassu nella loc. iri a stagghjapassu “prendere scorciatoie per raggiungere qualcuno, tagliandogli la strada”.

Il verbo deriva a sua volta da stagghju “cottimo, lavoro a cottimo”, “interruzione, sosta, riposo dopo un lavoro”, “canone d’affitto”, “scorciatoia” ecc. C’è anche il femm. stagghja “quantità di lavoro assegnato”. Scrive il Pitrè che i bambini usavano l’escl. stagghja! per interrompere improvvisamente e momentaneamente il gioco. Varianti sono stagghjarrè! e stagghjunè!

Da ultimo stagghju, documentato sin dal 1349, nella forma extali, deriva da un latino giuridico *EXTALIUM, derivato di TALIARE “tagliare”.

Concludiamo questa carrellata di parole con un uso letterario di stagghjari nel romanzo Il conto delle minne di Giuseppina Torregrossa:

Ninetta, la vecchia tata, è diventata così grassa che non si vede più i piedi da molto tempo, ma ha acquisito un’aura di saggezza che la fa assomigliare a una vecchia sciamana, dirime controversie, compone liti, stagghia malocchiodispensa consigli, cura malattie.

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