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“Passio Christi”, omaggio artistico con un messaggio di pace e speranza

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A Villa delle Favare le opere di otto artisti in una mostra promossa da Salvatore Mazzone sulle statue delle processioni della “Settimana santa” di Biancavilla.

di Paolo Giansiracusa

La Settimana Santa in Sicilia è il più alto momento liturgico dell’anno, momento di alti valori sociali, spirituali ed artistici. Semmai ci fosse bisogno di confutare la sostanza di questa valutazione, basterebbe visitare anche uno solo dei piccoli centri dell’Isola per comprendere, attraverso la riproposizione delle stazioni della “Via Crucis”, l’intensità di un evento che mette insieme tutte le forze e le intelligenze del territorio.

L’intervento artistico proposto da Salvo Mazzone si cala in quest’alveo di tradizione creativa dove il segno dell’arte si sposa alla devozione, alla fede, ai valori più autentici del popolo del Sud. L’Artista in questa occasione si è fatto anche promotore ed ha coinvolto alcuni degli autori più sensibili dell’umanità nuova, maestri già affermati e giovani pronti a spiccare il volo lungo le piste, non sempre facilmente praticabili, dell’arte contemporanea.

Il tema è quello della “Passio Christi” sviluppato con l’intervento di otto artisti del cui valore è documento l’ampio consenso che riscuotono tra gli addetti ai lavori. Ognuno ha sviluppato il messaggio pasquale con il linguaggio tipico del proprio carattere stilistico; ciò è utile ad avere un quadro d’insieme completo in cui le componenti tecniche, formali ed espressive del terzo millennio sono rappresentate nella loro globalità.

Salvo Mazzone, anima e azione del progetto, scultore di opere pubbliche ampiamente apprezzate, ha ripreso lo schema iconografico dell’Ecce Homo a cui ha conferito l’aspetto drammatico di un corpo sanguinante. Cristo deriso, ferito, vilipeso, coronato di spine… è il volto drammatico di un sistema feroce in cui la violenza sull’innocente esprime la dabbenaggine umana, la crudeltà dell’uomo. La forza espressiva del suo Cristo è il risultato di un sentimento che ha radici spirituali profonde.

Piermanuel Cartalemi è un giovane artista paternese che, in due opere stilisticamente, opposte esprime la dicotomia che aleggia nell’arte contemporanea. Nel dipinto del Cristo Morto riprende i caratteri formali delle statue barocche siciliane che, disposte dentro urne di vetro, scivolano silenziose nei cortei funebri della Settimana Santa. Nel sudario scultoreo c’è invece tutta la tensione dell’espressione artistica contemporanea che si compiace del nascondimento figurativo tra pieghe e contrasti plastici.

Piero Corpaci presenta un olio su tela raffigurante Maria Addolorata. A questa immagine di pietà e dolore siamo tutti fortemente legati. Nella madre piangente c’è la madre di tutti, c’è la donna del cielo che, pur consapevole di un ineluttabile destino, sa versare lacrime umane, sa portare negli occhi la pietà per un’umanità peccatrice.

Giuseppe Guzzone, incisore eccellente , ha orientato il suo estro creativo sull’immagine consolidata di Gesù nell’Orto del Getsemani. La tempesta dell’essere è espressa dal turbinio del cielo, dalle nuvole che si lacerano a brandelli come carne calpestata da una violenza dilaniante. Il cielo è rivelazione di un sentire terreno, di un morire sulla Croce nell’indifferenza o nella derisione.

Tano Leotta ha eseguito un Crocifisso che ha tratti umani e sguardo divino. D’altra parte il Cristo in Croce è il simbolo stesso dell’unità tra i valori terreni e quelli divini. La carne si lascia morire sul legno intagliato dagli uomini, lo spirito sale al cielo nell’empireo divino.

Pippo Ragonesi si è interrogato sulla composizione del Cristo alla colonna, circondato da altri eccidi del tempo moderno. La citazione di Munch è il simbolo stesso della morte causata dalla società violenta. Nel Crocifisso, tra le geometrie della modernità, c’è invece un messaggio di speranza guidato dalla ragnatela rigorosa dei percorsi terreni.

Alfio Pappalardo recupera l’immagine iconografica dell’Addolorata, la stessa Maria che nella Settimana di Pasqua cerca il Figlio morto per le vie dei paesi siciliani. Dall’alba al tramonto Maria cerca Gesù tra le case degli uomini, nelle piazze e nelle chiese dell’Isola. Lo sguardo è rivolto all’infinito, alla luce astrale verso cui lei stessa confluirà. Luminosa come una luna, attraversa i luoghi umani alla ricerca dello spazio divino.

Enzo Salanitro si è soffermato su uno dei momenti più coinvolgenti della Via Crucis, sul Cristo che porta la Croce verso il Calvario. La solitudine dell’essere, il buio della notte, accompagnano il Cristo al luogo del supplizio dove non c’è solidarietà, dove non c’è giustizia. Il lento procedere di Gesù è un viaggio nell’indifferenza dove trionfa solo la stupidità umana.

La mostra nel suo insieme, nella settimana di Pasqua, vuole essere anche un messaggio di Pace e di Speranza rivolto dagli artisti alla società contemporanea.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

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Cultura

È sempre così: per ogni mamma, i figli sono la “curinedda” del nostro cuore

Il termine esprime tenerezza e amore: deriva dal greco con il significato di “germoglio”

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Fra le parole che le mamme usavano a Biancavilla per esprimere amore e tenerezza verso i figli e le figlie c’è curina, variamente declinato in espressioni come curineḍḍa!, curina dô ma cori!, curineḍḍa dâ mamma! ecc., tutte col significato di “amore mio!”, “cuore mio!”, “gioia dell’anima mia!” e sim.

Con questo tipo di significati la nostra parola è usata nei romanzi e racconti di Silvana Grasso, di cui diamo qualche esempio:

Ah Sasà! che hai combinato figlio mio?! Ah Sasà curina del mio cuore! E come ti salvo io?! …Recitava muto Cornelio (L’albero di Giuda, 1997).

Il Paradiso era per lui sentire il fischio d’un treno e un altro e un altro ancora nella curìna dell’anima (Disìo, 2005).

Le tasche delle sue giacche sciauriàvano di zagara anche dopo il bucato o forse era tutt’uno col naso quell’odore, tale intramato nella sua pelle, nella curìna dell’anima che nulla ci poteva, nemmeno il bagno nella vasca d’alluminio quando, una volta al mese, la signorina Anselma gli faceva la doccia calandogli di sopra alcuni secchi d’acqua calda. (dalla raccolta La ddraunàra, 2020).

Ma prima di assumere questo significato traslato (metaforico), la curina indica “la parte più interna e più tenera del cesto di una pianta”, in una parola “il garzuolo, il grumolo”, ad esempio della lattuga, la parte più interna e tenera che si preferisce per le insalate.

Estendendo l’indagine ad altre parti della Sicilia, troviamo che curina può indicare il “germoglio appena spuntato dal terreno”, le “foglie della palma nana, quelle più tenere e bianche” che nel Trapanese vengono tagliate, pulite dalle spine e fatte essiccare nella stagione estiva. Con esse si creano delle corde che gli artigiani locali intrecciano per la realizzazione di scope, ventagli, tappeti e borse (Custonaciweb). Per estensione indica la “treccia di capelli di una ragazza”. In area etnea orientale curina di parma si dice di una “ragazza buona, dal carattere mite”.

Altri significati figurati registrati qua e là in Sicilia considerano curina la “parte migliore di qualunque cosa”. Gli sbergi di curina sono, quindi, le “nocepesche di migliore qualità” e la frase èssiri di la curina può significare, a secondo delle località e delle fonti, a) “essere il preferito”, b) “essere molto scaltro, malizioso”, c) “essere uno dei principali esponenti della combriccola”. Arriviamo, per questa strada, infine, a un significato del tutto negativo con la locuzione laṭṛu di curina “ladro matricolato”.

Dal nome deriva (per parasintesi) il verbo scurinari. Usato transitivamente significa “togliere la parte più interna e più tenera, ad es. a una lattuga, a un finocchio ecc.”; negli usi intransitivi il verbo vale “germogliare delle piante a fusto non legnoso” e “crescere ben diritto, del castagno”. Dal verbo derivano l’agg. scurinatu “di castagno perfettamente diritto” e il nome scurinata “farina separata dal fiore”

Oltre che in Sicilia, curina o una var. è diffuso in Calabria, dove indica il “grumolo di lattiga o cavolo”, il “garzuolo”, il “cuore di una pianta” o la “cima di un monte”; in Basilicata dove il “lino pettinato”; il deriv, napoletano corìnola è la “roccata di lino”. Nella Calabria sett. troviamo ancora scurinare “cimare le piante” e il deriv. scurinatu “senza cima”, “disgraziato”.

Per chi si voglia cimentare, infine, nella ricerca dell’origine della parola, è certamente forte la tentazione di fare derivare curina da cori “cuore”. In realtà, la nostra voce deriva dal greco κορύνη (korýnē), usato da Teofrasto (371-278 a.C.) nel De historia plantarum col significato di “germoglio”.

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