Cultura
Marzo 1602: fu così che Biancavilla ebbe le reliquie di San Placido


Riproponiamo un articolo di Salvuccio Furnari apparso nel 1982 sul periodico Callìcari ed oggi ripreso nel volume “San Placido a Biancavilla” di Filadelfio Grasso, a riprova dell’interesse per la ricerca storica e religiosa per il patrono. Articolo che, grazie a documenti del canonico Benedetto Viaggio, dà alcuni dettagli sconosciuti prima d’allora sulla consegna delle reliquie del Santo al paese etneo. Argomento poi approfondito da mons. Gaetano Zito in “San Placido a Biancavilla, quarto centenario”, pubblicazione a cura del Comune.
Dal 1602 Biancavilla venera San Placido. Questa data è riscontrabile in diversi documenti ed atti citati dal canonico Placido Bucolo nella ormai nota ed unica “Storia di Biancavilla”. Infatti, questi, così scrive:
«Trovate a Messina le reliquie nel 1558, si sparse subito la devozione in tutta la Sicilia, e Biancavilla non rimase indietro. Nella visita pastorale del 1602, il Vescovo trova imago S. Placidi, e già a 22 agosto 1616 si legge per la prima volta il nome di Placido nei libri dei battesimi».
«Si ha del Santo un osso del suo braccio dentro un braccio d’argento fatto a spese del dr. Francesco Gemma nel 1680».
Dalla lettura dei brani citati si evidenzia come la prima parte sia suffragata da documenti, mentre l’ultima affermazione cita solamente il possesso della reliquia del Santo e del suo involucro in argento costruito appositamente, senza minimamente accennare alla provenienza.
Tale lacuna, a distanza di diversi secoli può essere colmata. Infatti, casualmente, ho avuto la fortuna di trovare, insieme ad Antonio Zappalà, tra i resti di quella che fu la biblioteca privata della famiglia Viaggio, un manoscritto risalente al 1892, del can. prof. Benedetto Viaggio (1822-1899), agostiniano.
Il fondo, promosso e arricchito negli anni, da diversi componenti la Famiglia (preti regolari e secolari e autorevoli professionisti) era costituito da una raccolta libraria ed altro materiale cartaceo, quasi tutto donato, a detta degli eredi (Clementina Viaggio), alla Biblioteca del Convento San Francesco di Biancavilla nella prima metà del secolo scorso.
Da tale documento, scritto in latino ed in italiano, e somigliante ad un “diario”, si rilevano le maggiori festività e le rispettive date succedutesi nel corso dell’anno 1892 e gli anni trascorsi dalle “Epoche e Memorie per noi le più illustri”.
Il dato che a noi interessa è riportato al quinto punto della seconda pagina che così recita: «Dal marzo 1602, epoca in cui i Giurati di Biancavilla D. Domenico Privitera, D. Tommaso Piccione e D. Antonino Mangione, essendo Vescovo di Catania Mons. Giovanni Ribiba, domandarono ed ebbero dal Padre Abbate Cassinese di S. Maria di Licodia D. Romano Abbate, le Reliquie insigni del nostro Compatrono Ab. e M. S. Placido, sono passati 290 anni».
Dalla testimonianza scritta, sopra riportata del can. Benedetto Viaggio, ricaviamo quindi elementi nuovi di conoscenza importanti non solo sulla data della donazione (riconfermato il 1602) con l’aggiunta e l’indicazione del mese -marzo- ma per la prima volta anche il luogo di provenienza ed i personaggi (Giurati ed Abbate) che operarono tale evento.
La donazione, avvenuta all’inizio del Seicento, come evidenziato prima, su richiesta dei Giurati di Biancavilla, collegata certamente ad altre motivazioni etnico-socio-politiche territoriali del tempo che non sto ad approfondire in questo scritto, chiarisce come mai abbiamo a Biancavilla anche la venerazione di un Santo benedettino non collegato al culto ortodosso-orientale portato dagli Albanesi, bensì espressione della religiosità del “monachesimo occidentale” sostenuta ed auspicata dopo il Concilio di Trento dalle gerarchie ecclesiastiche di rito latino.
Questa notizia, anche se può sembrare minima, fornisce un significato concreto e certo, legato alla storia delle tradizioni religiose e di devozione popolare nel nostro territorio.
(Tratto da “Callìcari”, Anno IV, dicembre 1982)
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Cultura
Occhio al meteo per non essere tirati dalla “lavina” o travolti dalla “ddaunara”
Prima delle “bombe d’acqua”: fenomeni atmosferici estremi e pericolosi nella parlata locale




Entrato da poco nel dibattito politico, mentre da tempo ne discutono gli scienziati, è il tema dei cambiamenti climatici, nome con cui, secondo la definizione delle Nazioni Unite, «si intendono le variazioni a lungo termine delle temperature e dei modelli meteorologici. Queste variazioni possono avvenire in maniera naturale; tuttavia, a partire dal XIX secolo, le attività umane sono state il fattore principale all’origine dei cambiamenti climatici, imputabili essenzialmente alla combustione di combustibili fossili (come il carbone, il petrolio e il gas) che produce gas che trattengono il calore».
Queste variazioni sembrano dunque la causa della maggiore frequenza di fenomeni atmosferici estremi: aumento delle temperature, trombe d’aria, bombe d’acqua, grandinate improvvise ecc. Abbiamo usato deliberatamente la formula «maggiore frequenza», poiché, se è vero che questi fenomeni, in quanto eventi naturali, ci sono sempre stati, è innegabile, e lo confermano le statistiche, che la loro frequenza è in costante aumento. Lungi da noi comunque voler affrontare questo tema che esula dalle nostre competenze e dai contenuti di questa rubrica, ci vogliamo dedicare, invece, ai nomi dialettali usati a Biancavilla per riferirsi ad alcuni fenomeni atmosferici, cominciando con lavina.
Uno rovinato: “tiratu da lavina”
Il significato che i biancavillesi attribuiscono a questo termine è “acqua che scorre ai lati e al centro della strada in seguito alla pioggia”. La conformazione dell’abitato di Biancavilla fa sì che, quando piove con insistenza, ma anche con un acquazzone improvviso, le strade, che dai quartieri alti scendono verso il centro e da qui verso i quartieri bassi, si trasformano in veri e propri torrenti d’acqua che trascinano cose e persone che malauguratamente ne vengono investite. Da ciò nasce il modo di dire tirarisillu a lavina che ha il significato figurato di “essere del tutto rovinato, perdere ogni bene, essere travolto dagli eventi”: a-cchissa, mischina, ccˆmorti di sa maritu, s’a tirau a lavina.
È chiaro che il significato figurato di questo modo di dire parte da fatti concreti, dall’osservazione di qualcuno che materialmente è stato trascinato dalla forza della lavina. Ma nel rapporto uomo-natura, gli uomini non sono stati sempre passivi; a volte hanno reagito affrontando il pericolo. Ne fa fede il modo di dire dàrisi / ittàrisi a facci â lavina che ha il significato di “lavorare accanitamente non badando a eventuali difficoltà”: pp’amuri dê sa figghji s’a ittatu a facci â lavina! In altre parti della Sicilia, lavina ha ancora tanti significati: da “torrente, fiumara” a “corso d’acqua melmosa che si forma in seguito alle piogge”, da “acqua piovana incanalata per irrigare gli orti” a “modesto avvallamento del terreno nel quale ristagna l’acqua per qualche tempo”, da “striscia di terreno alluvionale coltivato lungo i margini di un torrente” a “frana, smottamento” ecc.
Il tipo lavina, presente nell’Italia meridionale e settentrionale, con esclusione di quella centrale, è anche dell’italiano, in cui ha il significato di “valanga di neve in movimento”, e deriva dal lat. tardo labīna, der. di labi “cadere, scivolare”, da cui anche lava.
Quando “calava a ddaunara”
Un fenomeno, se possibile, ancora più pericoloso e terribile della lavina è la formazione della ḍḍaunara. In seguito a piogge torrenziali e impetuose, accompagnate da turbini di vento, in alcune zone di Biancavilla, secondo i racconti degli anziani, calava a ḍḍaunara, un fiume d’acqua che trascinava ogni cosa, che entrava nelle case e distruggeva tutto.
I ricordi di chi scrive vanno agli anni in cui, in occasione della festa di San Placido, si sistemavano le bancarelle delle stoviglie e di altre suppellettili da cucina di fronte alla chiesa di Gesù e Maria. Più di una volta è capitato che il fiume d’acqua, la ḍḍaunara, travolgesse tutte le bancarelle, trascinando piatti bicchieri fino alla via Innessa e giù fino alla Fontana Vecchia.
In altre parti della Sicilia, sono diffuse le varianti ḍḍṛaunara e ṭṛaunara coi significati di “caduta d’acqua torrenziale”, “vento impetuoso e improvviso accompagnato da pioggia”, “turbine di bufera, ciclone, uragano”, “tromba d’aria”, “tromba marina”. Secondo l’etnologa Elsa Guggino, nelle tradizioni popolari, la ḍḍṛaunara «è un vortice di aria che a poco a poco prende la forma di una donna tutta spettinata. È una majara che può essere viva o morta e va contro i pescatori; si porta via anche le case […]».
Un turbine… letterario
Questa figura ha talmente influenzato i nostri scrittori moderni da intitolarci dei romanzi, come Pino Amatiello (Dragunara), Silvana Grasso (Nebbie di draunàra), Linda Barbarino (Dragunera), e/o da farne un personaggio delle loro opere. Bastino questi pochi esempi:
«Ora ci troviamo tutti e tre davanti alla draunara. Possiamo aiutarci. Non ho alcuna formula magica. So soltanto una preghiera» (Fortunato Pasqualino, La bistenta, 1964).
«E proprio là, mentre stavano calati a sciogliere le pezze, cos’era stato? Dragonara? Terremoto? Ancora non se ne capacitava. Non li aveva sentiti arrivare, non li aveva visti saltare da sopra i limmiti» (Andrea Camilleri, Un filo di fumo, 1980).
«E sarà finalmente fuoco e fiamma, incendio, tempesta, draunara; sarà terremoto e lava; sarà pura fiamma che arde» (Silvana La Spina, La creata Antonia, 2001).
La coda del dragone
La parola ḍḍaunara, insieme alle sue varianti, è all’origine un aggettivo, come dimostrano cuda ḍḍṛaunara e cuda di ḍḍṛaguni, lett. “coda di dragone”, con gli stessi significati. Si tratta di un derivato del grecismo latino dracone(m) lett. “serpente”, ma un serpente particolare: «un tipo di serpente grosso e innocuo, tenuto in casa come gioco […] e i dracones presso gli antichi Romani erano i serpenti sacri, allevati nei santuari o nelle case come protettori e custodi» (DESLI – Dizionario etimologico e semantico della lingua italiana). In origine, dunque, questo “drago” non è quello “cristiano”, collegato al diavolo o all’eresia, ma quello di origine preistorica, che di volta in volta si presenta come serpente acquatico, montano, sotterraneo, celeste, rapitore, guardiano, inghiottitore ecc.
Nel corso dell’evoluzione ideologica, pur conservandone il nome, il “drago” diventa un essere pauroso, che cambia forma, fino ad assumere quella antropomorfa di una «donna tutta spettinata», in grado di provocare tempeste, trombe marine, alluvioni, terremoti. Secondo le credenze popolari dei marinai e dei pescatori, questa “coda di drago” poteva essere “tagliata” attraverso dei sortilegi e delle formule magiche. Di solito era un mancino che, vibrando un coltello in aria, descriveva delle croci e tagliava così la coda del drago, ponendo fine alla tromba d’aria.
PER SAPERNE DI PIU’
“La Sicilia dei cento dialetti” di Alfio Lanaia
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