Cultura
Uno squarcio sulla Sicilia normanna, nuova ricerca storica di Antonio Mursia
In un libro, l’autore biancavillese mette a confronto le strutture signorili di due potenti casati


“Strutture signorili a confronto. Gli Aleramici e gli Avenel Maccabeo nella Sicilia normanna (XI-XII secolo)”. È il libro, pubblicato da Rubbettino, di Antonio Mursia, ricercatore biancavillese, apprezzato collaboratore di Biancavilla Oggi.
Con questo suo ultimo lavoro, Mursia propone una riflessione sull’esistenza di “strutture signorili” nella Sicilia normanna. La ricerca si concentra su due signorie laiche, facenti capo ai potenti casati degli Aleramici e degli Avenel Maccabeo in auge nell’isola dall’ultimo decennio dell’XI secolo agli anni Ottanta del XII.
Dottore di Ricerca in «Studi sul patrimonio culturale» e Dottorando di Ricerca in «Scienze dell’Interpretazione» presso l’Università di Catania, Mursia indaga in chiave comparativa le modalità di controllo del territorio da parte delle due consorterie. Altri aspetti studiati: le forme adottate per la promozione dei monasteri; la nascita dei ceti dirigenti; la formazione di uno stretto seguito all’interno delle corti. E infine, i diritti, anche redditizi, che i signori potevano esercitare in vario modo.
La scelta di mettere a confronto le strutture e i sussidi che permettevano agli Aleramici e agli Avenel Maccabeo la gestione del potere, intende presentare, quindi, una nuova visione del fenomeno della “signoria” nella Sicilia normanna.
Proprio la Sicilia normanna e la strutturazione dei legami familiari tra le élite aristocratiche, della signoria e del monachesimo sono gli ambiti di ricerca di Antonio Mursia. L’autore biancavillese si è occupato pure di storia del francescanesimo in Sicilia. Ha analizzato, in particolare, le modalità d’insediamento dei frati minori de observantia e dei frati minori cappuccini, tra tardo medioevo e prima età moderna.
Il volume dato alle stampe per Rubbettino contiene la prefazione di Orazio Condorelli, professore ordinario di Diritto Ecclesiastico e Diritto Canonico dell’Università di Catania. La postazione, invece, è di Horst Enzensberger, professore emerito di Scienze storiche ausiliarie presso la Fakultäten Geistes- und Kulturwissenschaften Otto-Friedrich-Universität Bamberg.
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Cultura
Anche il ministro della Cultura Sangiuliano si prende la “stagghjata”
Il termina indica un compito da svolgere, ma a Biancavilla è pure il nome di una contrada




Questa infelicissima e tristissima dichiarazione del ministro della Cultura (sic!) è di qualche settimana fa: «Mi sono autoimposto di leggere un libro al mese. Un fatto di disciplina, come andare a messa». La lettura come sacrificio ed espiazione, dunque: una sorta di cilicio. C’è l’aspetto politico, pedagogico e culturale della dichiarazione. Ma anche religioso (ridurre l’andare a messa a un mero dovere, se non a un sacrificio, non è proprio il massimo per un credente). A noi che ci occupiamo di lingue e di dialetti, tutto ciò, però, ha fatto pensare a un modo di dire usato a Biancavilla.
Un modo che ci sembra calzante: pigghjàrisi a stagghjata, cioè “assumere l’incarico di portare a termine un lavoro entro un lasso di tempo stabilito” (exempli gratia «leggere un libro al mese»). La stagghjata era cioè “il compito, il lavoro da svolgere in un tempo determinato, spesso nell’arco di una giornata”. Dari a stagghjata a unu equivaleva ad “assegnare a qualcuno un lavoro da compiere in un tempo stabilito dopo di che potrà cessare per quel giorno il proprio servizio”.
In altre parti della Sicilia la stagghjata può indicare il “cottimo”. Ad esempio: ṭṛavagghjari ccâ / a la stagghjata “lavorare a cottimo”; “la quantità di olive da spremere in una giornata”; “la fine della giornata, il tramonto: ṭṛavagghjari finu â stagghjata lavorare fino al tramonto”; “sospensione da lavoro”, “slattamento, svezzamento”.
Con l’illusione di finire prima un lavoro, ancora negli anni ’80 del secolo scorso si sfruttavano i braccianti e gli operai dell’edilizia, soprattutto i manovali, i ragazzi minorenni. Ecco una testimonianza tratta da La speranza della cicogna di Filippo Reginella:
Tale lavoro si sviluppava quasi interamente con metodi manuali e magari con la promessa della famosa “stagghiata” che consisteva nel lavorare di continuo fino al completamento della struttura in corso di realizzazione e poi andare a casa qualsiasi ora fosse, come se potesse capitare di finire prima dell’orario ordinario: mai successo! Solo illusione!
Toponimo in zona Vigne
Il nome ricorre anche nella toponomastica del territorio di Biancavilla. Le carte dell’Istituto geografico militare (IGMI 261 II) ricordano il toponimo Stagghjata che indica dei vigneti a Nord del Castagneto Ciancio.
Anche il Saggio di toponomastica siciliana di Corrado Avolio (1937) ricorda i stagghiati di Biancavilla, col significato probabile di “terre date in affitto”.
Alle origini del termine
Cercando di risalire all’origine della nostra voce, ricordiamo, innanzitutto, che stagghjata deriva da stagghjari, un verbo dai molti significati. Tra questi ricordiamo i seguenti: “tagliare, troncare”, “fermare, interrompere il flusso di un liquido” (cfr. stagghjasangu “matita emostatica usata dai barbieri”), “delimitare, circoscrivere, da parte di più cacciatori, un tratto di terreno in cui si trova la selvaggina”; “convogliare i tonni verso la camera della morte della tonnara”; “sospendere momentaneamente il lavoro che si sta facendo”; “venir meno di una determinata condizione fisica: a frevi mi stagghjau non ho più la febbre”.
Fra i modi di dire citiamo stagghjàricci a tussi a unu “ridurre qualcuno al silenzio”, stagghjari la vìa “impedire il passaggio”, stagghjari l’acqua di n-ciùmi “deviare l’acqua di un fiume”. Fra i composti con stagghjari, oltre al citato stagghjasangu, ricordiamo stagghjafocu a) “ostacolo per impedire che il fuoco si propaghi ai campi vicini quando bruciano le stoppie” e b) “striscia di terreno liberata da ogni vegetazione per circoscrivere un incendio”; stagghjacubbu “silenzio profondo”, negli usi gergali; stagghjapassu nella loc. iri a stagghjapassu “prendere scorciatoie per raggiungere qualcuno, tagliandogli la strada”.
Il verbo deriva a sua volta da stagghju “cottimo, lavoro a cottimo”, “interruzione, sosta, riposo dopo un lavoro”, “canone d’affitto”, “scorciatoia” ecc. C’è anche il femm. stagghja “quantità di lavoro assegnato”. Scrive il Pitrè che i bambini usavano l’escl. stagghja! per interrompere improvvisamente e momentaneamente il gioco. Varianti sono stagghjarrè! e stagghjunè!
Da ultimo stagghju, documentato sin dal 1349, nella forma extali, deriva da un latino giuridico *EXTALIUM, derivato di TALIARE “tagliare”.
Concludiamo questa carrellata di parole con un uso letterario di stagghjari nel romanzo Il conto delle minne di Giuseppina Torregrossa:
Ninetta, la vecchia tata, è diventata così grassa che non si vede più i piedi da molto tempo, ma ha acquisito un’aura di saggezza che la fa assomigliare a una vecchia sciamana, dirime controversie, compone liti, stagghia malocchio, dispensa consigli, cura malattie.
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