Cultura
Il Sole con groviglio di nuvole e la pupilla rettangolare: “Occhio di capra”
Fenomeno di “meteorologia popolare siciliana” tra Sciascia, Rumiz, Fillioley e Li Vigni

Su queste pagine ci siamo già occupati di due termini della meteorologia siciliana, lavina e ḍḍaunara, usati a Biancavilla ma ormai quasi dimenticati e sconosciuti dai giovani. In un’ideale seconda puntata, dedicata ai nomi di questo particolare campo semantico, ci viene in mente occhju â crapa, del cui significato (“groviglio di nubi, da cui filtra a intermittenza un po’ di luce, che minacciano pioggia”), tuttavia non siamo molto sicuri e pertanto saranno graditi i commenti dei lettori che vorranno dire la loro. Da parte nostra, useremo fonti etnografiche, lessicografiche e letterarie dalle quali risulterà evidente il grande interesse che suscita questa espressione.
In un articolo del 1885 (Meteorologia popolare siciliana), a proposito delle nuvole, Giuseppe Pitrè dice che «l’occhiu di capra è una nuvola di forma più o meno circolare a destra o a sinistra del sole, al suo levarsi o al suo tramonto, la quale si tinge de’ colori dell’iride; ed è segno di cattivo tempo di là da venire tre giorni dopo».
I contadini, pertanto, osservando questo fenomeno, lo consideravano un sicuro indizio di temporali violenti, da cui il proverbio di Chiaramonte Gulfi: Occhiu di crapa / o ti jinchi o ti sdivaca. In altre località, invece, con occhiu di capra si intendeva «quella squarciatura rotonda che si fa in mezzo a larghi nuvoloni verso occidente, nelle ore pomeridiane, lasciando vedere un brano di cielo azzurro. Esso vien preso allora come indizio di cessazione del mal tempo, e principio di giorni sereni». Da qui il proverbio di Borgetto: Quannu fa l’occhiu di la crapa, tempu leggiu c’è. Due significati diversi, se non opposti, dunque.
Lessicografia siciliana
Chiedendo adesso lumi alla lessicografia, alla voce occhju di/ri crapa troviamo i seguenti significati, in diverse aree della Sicilia: a) “arcobaleno”; b) “spiraglio di sole tra le nuvole”; c) “iride interrotta o nuvoletta che si forma intorno al sole, all’alba o al tramonto ritenuta foriera di pioggia”; d) “si dice del sole quando, al tramonto, è tagliato obliquamente da strisce di nuvole”. Quest’ultima definizione, proveniente da Racalmuto, la ritroveremo in un testo letterario
Molto interessanti sono le informazioni che si possono trarre dalle opere letterarie. Nel 1982, sul risvolto di copertina di Kermesse (Palermo, Sellerio), una raccolta di parole in disuso di Racalmuto, Leonardo Sciascia scrisse queste parole: «Sei anni fa, in campagna, guardando il sole che tramontava dietro le nuvole che sembravano tratti di penna – un po’ spento, un po’ strabico, come ingabbiato – qualcuno disse: “Occhio di capra: domani piove”. Non lo sentivo dire da molti anni …».
Nel 1990, facendo una nuova edizione dell’opera per Adelchi, Sciascia cambiò il titolo in Occhio di capra e alla voce uocchiu di crapa scrisse: «Occhio di capra. Si dice del sole quando, al tramonto è tagliato obliquamente da strisce di nuvole: per cui appare come una pupilla che guarda strabicamente. Si ritiene indizio di pioggia, per l’indomani alla stessa ora». Da Sciascia prende l’abbrivo l’uso dell’espressione nell’italiano regionale dei testi letterari. Il primo, di Gaetano Savatteri, è tratto da I ragazzi di Regalpetra (2011):
C’è gente che conosce il paese perfino suoi silenzi, nelle sue assenze. Il contadino alza gli occhi al cielo, osserva il sole al tramonto tagliato da strisce di nuvole, commenta distratto: «Occhio di capra, domani piove».
Non solo Leonardo Sciascia…
Seguono due esempi di Paolo Rumiz, tratti, rispettivamente, da Moribondo (2015) e Il ciclope (2017):
Alle sei il sole fa “occhio di capra”, come dicono in Sicilia. Buca un diaframma di nubi gialline con pupilla da fauno e inonda di rosso i canneti. Nubi sottili, come un branco di pesci all’erta in un fondale.
Solo quando il raggio aveva completato l’ultimo giro, [l’aurora] si era decisa a bucare la foschia a oriente con un mozzicone simile a un occhio di capra, poi era sorta, lenta come una sinfonia, salutata da centinaia di gabbiani.
Uno di Mario Fillioley, tratto da La Sicilia è un’isola per modo di dire (2018):
Tutte queste peculiarità, queste stranizze d’amuri, questi contadini saggi che si siedono su un muro a secco, scrutano nel cielo l’occhio di capra e vaticinano il meteo, che parlano per antichi detti, dove sono? E l’insularità, allora?, mi dicono i milanesi, e Manlio Sgalambro?
E uno, infine di Benito Li Vigni, tratto da La dinastia dei Florio (2021), che riprende alla lettera la descrizione sciasciana:
Era calata la sera. Per la gente sparsa nella piazza era l’ora dell’“Uocchiu di crapa”, occhio di capra. Si dice del sole, quando, al tramonto, è tagliato obliquamente da strisce di nuvole per cui appare come una pupilla che guarda strabicamente. Si ritiene indizio di pioggia, per l’indomani alla stessa ora. E piovve su questa storia siciliana.
“Occhio di capra” alle origini
Analizzati, quindi gli usi e i significati, comuni e letterari, della nostra espressione, bisogna adesso chiedersi da dove essa derivi. Dal punto di vista linguistico, occhju â crapa, occhju di crapa e occhio di capra sono varianti di un’espressione polirematica. Un sintagma, cioè, costituito da due o più parole, con significato autonomo rispetto ai singoli termini che lo costituiscono.
Si tratta inoltre di una metafora che parte dal significato concreto di “occhio della capra”, le cui pupille sono orizzontali e di forma rettangolare, si trasforma in uno o più significati traslati, metaforici, appunto. In italiano occhio di capra è un termine della medicina che designa l’“aspetto dell’occhio umano caratterizzato da un abnorme riflesso biancastro che proviene dalla pupilla dilatata e rigida, che rappresenta il segno caratteristico del giloma della retina”.
Questa patologia dell’occhio viene associata dunque all’occhio della capra. Nei trattati di botanica occhio di capra è calco del latino oculus caprae, a sua volta calco dal greco Aigilops, “egilope o grano delle formiche (Triticum vagans)”, una pianta erbacea che ha i culmi di circa un palmo; le foglie cigliate nei bordi; la spiga corta, ovoide, barbuta; le glume a tre reste patenti, secondo il Vocabolario della lingua italiana del Cardinali (1846).
Non ci sarebbe nessuna relazione con l’occhio della capra, se non fosse perché, come dice il Cardinali (Dizionario della lingua italiana, 1846), questa pianta era «creduta utile a guarire l’egilope». Ricordiamo che esiste una varietà di fagiolo, chiamato proprio fagiolo occhio di capra, con baccelli bianchi con strisce rosse e semi di colore crema.
Gemme e pietre preziose
Un altro significato di occhio di capra si ricava dagli antichi trattati di gemme e pietre preziose. Nel suo Tesoro delle gioie (1619), Ardente Etereo, pseudonimo di Cleandro Arnobio, parla di una gemma conosciuta come occhio di capra: «É spezie di Sardonico, che dicesi Egoftalmo, e sembra l’occhio della Capra». Non possiamo tralasciare, a questo proposito, alcuni versi di Gian Battista Marino, tratti dall’Adone (XVI, ottava 142):
Di paradisi per pennacchio un bosco
gemma v’aflige in or legata e chiusa,
rara fra quante al sol la terra n’apra,
gemma che rassomiglia occhio di capra.
A questo punto, sembra proprio che la particolarità dell’occhio della capra, con le sue pupille rettangolari, abbia fornito il sema lessicogeno per formare la nostra espressione, abbia ispirato, cioè, la similitudine (accorciata) tra la pupilla orizzontale della capra e il particolare fenomeno atmosferico «del sole quando, al tramonto, è tagliato obliquamente da strisce di nuvole».
PER SAPERNE DI PIU’
“La Sicilia dei cento dialetti” di Alfio Lanaia
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Cultura
«Il Palazzo Portale sia acquistato dal Comune per esporre gli antichi reperti»
Proposta dell’associazione “Biancavilla Documenti” indirizzata all’amministrazione Bonanno
L’associazione culturale “Biancavilla Documenti” ha presentato una proposta al Comune affinché valuti l’acquisto del piano nobile del Palazzo Portale, attualmente messo in vendita (con il giardino) dagli eredi a 800mila euro, con l’obiettivo di destinarlo a sede museale per accogliere la collezione archeologica appartenuta al canonico Salvatore Portal (1789–1854).
La proposta è firmata dal presidente Antonio Zappalà e dal segretario Salvuccio Furnari. L’invito all’amministrazione comunale è a verificare la congruità del prezzo dell’immobile per un’eventuale acquisizione al patrimonio comunale.
Secondo l’associazione, il Palazzo Portale — edificio di alto pregio architettonico situato nella centrale piazza Roma e dotato di uno spazio verde esterno — rappresenterebbe la sede più appropriata e storicamente significativa per ospitare i reperti del celebre abate biancavillese. In passato, infatti, proprio in quell’area era stato allestito l’antico orto botanico creato dallo stesso Portal, noto non solo come ecclesiastico, ma anche come naturalista e ricercatore scientifico.
La collezione archeologica
L’intera collezione di vasi, anfore, ceramiche, terrecotte e altri reperti raccolti da Portal è, grazie alla disponibilità degli eredi, destinata a Villa delle Favare per farne il primo museo civico.
«Riteniamo che il Palazzo Portale – si legge nella nota dell’associazione – sia la sede ideale, storicamente appropriata e legata familiarmente al nostro Portal, ricercatore e scienziato. È quindi il luogo più idoneo per l’allocazione e l’allestimento di un museo che custodisca la pregiata collezione».
L’associazione sottolinea, inoltre, che è ancora in corso l’iter per il riconoscimento giuridico e la definizione delle modalità operative legate alla tutela, alla donazione e alla futura fruizione pubblica dei reperti. Con questa iniziativa, “Biancavilla Documenti” intende stimolare una riflessione sul valore culturale e identitario della figura del canonico Portal e sulla necessità di conservare e valorizzare la sua eredità in uno spazio che ne rappresenti la memoria storica e scientifica.
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Cultura
“Nella mente dei briganti”, incontro in Accademia sul libro di Filadelfio Grasso
La storia analizzata con gli strumenti della psicologia sociale nel volume “Nero su Bianco Edizioni”
Chi furono i briganti? Uomini comuni, eroi, combattenti romantici e dai sentimenti nobili oppure uomini spietati, sanguinari e psicologicamente disturbati? Interrogativi su cui Filadelfio Grasso tenta di rispondere. Lo fa esplorando le radici del fenomeno, il contesto storico dall’Unità d’Italia ai primi del Novecento, le dinamiche sociali e le condizioni economiche che spinsero uomini comuni a ribellarsi contro le ingiustizie, il modo in cui erano visti dalla comunità in cui vivevano.
Ne viene fuori una ricerca affascinante, racchiusa nel volume “Nella mente dei briganti”, pubblicato da Nero su Bianco Edizioni. Il brigantaggio siciliano analizzato con la lente della psicologia sociale. Un volume presentato alla numerosa platea dell’Accademia Universitaria Biancavillese. All’intervento della presidente Rosa Lanza, si sono affiancati quella dell’editore Vittorio Fiorenza e dello psicoterapeuta Alessio Leotta, che con l’autore hanno tratteggiato uno studio che si è avvalso di un approccio scientifico inedito.
«È come se Filadelfio Grasso – ha detto Fiorenza – avesse fatto sdraiare sul lettino dello psicoterapeuta quei personaggi, sottraendoli per un attimo a un passato controverso, e li avesse fatti parlare. Non per giustificare i loro atti, ma per comprendere gli aspetti emotivi e intimamente interiori che hanno dato origine al fenomeno del brigantaggio».
Briganti, dall’Etna al Simeto
Attraverso testimonianze e documenti, l’autore ha focalizzato l’attenzione su personaggi legati a Bronte, Adrano, Biancavilla, Santa Maria di Licodia, Paternò, Belpasso e Centuripe. Non soltanto banditi, ma anche personalità emblematiche, travolte dalla rabbia e dalla disperazione in un’Italia postunitaria segnata da ingiustizie e promesse disattese.
«Il brigantaggio post unitario – sottolinea Filadelfio Grasso – fu una forma di difesa da parte di chi vide un proprio diritto leso, calpestato. Fu una difesa da quelle che vennero considerate prevaricazioni. Ci si difese come fu possibile. La coesione, la ribellione e l’aggressività furono all’ordine del giorno. Alla scelta di conformarsi da parte di molti, si aggiunse da parte di tanti altri anche una evidente rinuncia sociale che si manifestò in una massiccia emigrazione verso terre lontane. Frustrazione, delusione e rabbia, unite al forte senso di deprivazione relativa, furono all’ origine del comportamento violento e aggressivo».
Un’opera che va oltre il freddo racconto dei fatti e che indaga il pensiero, le emozioni e le motivazioni interiori dei briganti, offrendo una nuova prospettiva su una delle pagine più controverse e complesse della storia italiana.
Le socie e i soci dell’Accademia Universitaria Biancavillese hanno poi animato un vivace e articolato dibattito con interventi sulle condizioni della Sicilia pre e postunitarie, sul ruolo di Garibaldi e dei Mille, sulle condizioni che il nuovo Regno impose alle popolazioni meridionali, sulla mancata suddivisione delle terre, sul clima di delusione per le speranze represse. Un contesto che ha generato quegli uomini, appellati “briganti”, che hanno preferito darsi alla macchia.

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