Storie
Biancavilla, novembre 1957: cronaca di quel duplice femminicidio alla stazione
“Biancavilla Oggi” ricorda il sacrificio di due sorelle cancellate dalla memoria e senza nessuna giustizia
Una pagina di cronaca cancellata dalla memoria collettiva. Quasi settant’anni fa un duplice femminicidio alla stazione della Circumetnea, affollata di viaggiatori, sconvolse Biancavilla. Otto colpi di pistola per un duplice femminicidio compiuto dalla mano di un marito ossessionato dalla gelosia. Una tragedia familiare, il 14 novembre del 1957, che ebbe eco sulla stampa nazionale.
Lui, l’assassino: un 37enne, vaccaro e custode di alcuni fondi agricoli. Le vittime: la moglie di 35 anni e sua sorella di due anni più piccola. Tutti originari del Messinese, ma vivevano a Biancavilla. Nonostante i cinque figli e i 17 anni di matrimonio (10 dei quali vissuti a Biancavilla), per la coppia non c’era pace. Liti continue, tensioni quotidiane. Lui convinto di essere tradito perché aveva sentito in paese che la moglie «era stata toccata». Ma lei respingeva quelle dicerie: tutto falso. Fino al brutale epilogo. La donna decise di andare via. Assieme alla sorella – venuta qualche settimana prima in suo aiuto «perché le cose si stavano mettendo male» – cercò di tornare nel suo paese natale. Un atto di ribellione alle angherie. Un gesto di coraggio e determinazione: qualità che ancora oggi mancano a tante vittime di maltrattamenti.
In attesa del treno, metafora di libertà
Così, le due sorelle si recarono alla stazione della Ferrovia Circumetnea con l’intenzione di prendere l’automotrice diretta a Randazzo e da lì raggiungere la provincia di Messina. «Stanca della vita di inferno che le faceva condurre il marito, aveva deciso di abbandonare per sempre il tetto coniugale e di tornare dai suoi familiari», riportò il quotidiano La Stampa. Un piano che l’uomo bloccò a revolverate. Precipitatosi in stazione in sella alla sua motocicletta, senza pronunciare parola, esplose una raffica di colpi: quattro freddarono la moglie mentre stava ritirando i biglietti di viaggio, due presero la cognata e altri due andarono a vuoto. Una morte istantanea, in attesa del treno, metafora di un tentativo di fuga verso la libertà.
Tornato nella sua abitazione, l’omicida raccontò tutto a una vicina: «Se volete vedere mia moglie e mia cognata morte, andate alla stazione. Se poi volete vedere anche il mio cadavere, entrate fra poco in casa mia». Barricatosi, si distese sul letto, sparandosi un colpo alla testa con l’ultima pallottola rimasta nell’arma. I carabinieri sfondarono la porta e, subito soccorso, l’uomo venne trasportato d’urgenza all’ospedale “Vittorio Emanuele” di Catania.
La giustizia della memoria
«La comunità rimane scossa da una tragedia maturata all’interno delle mura domestiche e degenerata in maniera irreparabile», scrisse il Corriere della Sera. Biancavilla (e la Sicilia) vivevano ancora nella cappa del patriarcato, del maschilismo e della sudditanza femminile, senza possibilità di giustizia per chi osasse alzare la testa. Che fine fece l’assassino? Se la cavò con qualche settimana di ospedale: gli fu estratta la pallottola conficcata sopra la mandibola, senza gravi conseguenze. A distanza di un anno dal duplice femminicidio, fu dichiarato totalmente infermo di mente e quindi non processabile. “Il vaccaro che uccise due donne per gelosia internato per dieci anni nel manicomio di Barcellona”, titolò il quotidiano La Sicilia. Sì, la fece franca perché “pazzo”, in un’epoca in cui il rimbombo delle parole “adulterio” e “delitto d’onore” avevano ancora un peso influente nelle aule di giustizia.
La radio trasmetteva i primi brani di un giovane “urlatore” Adriano Celentano, promessa della musica, e tutti a cantare Nel blu dipinto di blu, canzone vincitrice quell’anno del Festival di Sanremo, mentre lo strip-tease di Aïché Nana aveva appena inaugurato la Dolce vita. La ribellione giusta di una moglie sottomessa e il sacrificio suo e della sorella erano stati già dimenticati a Biancavilla. Non sappiamo il destino a cui andarono incontro i cinque figli della coppia. In questa Giornata contro la violenza sulle donne, Biancavilla Oggi vuole ricordare le vittime innocenti di quel delitto arcaico: uccise perché donne e non assoggettate alla prepotenza maschile. La giustizia della memoria, almeno quella, la dobbiamo loro riconoscere.
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Storie
Assalto in banca, i ricordi dei ragazzi di allora e la commozione dei familiari
Tante reazioni social alla rievocazione di “Biancavilla Oggi” su quella drammatica pagina di cronaca
«Io ero piccolissima, ma ricordo ancora il rumore degli spari e per lungo tempo i fori dei proiettili sulle pareti esterne del negozio dei miei genitori»: lo scrive Nancy Sangiorgio. «Ero piccolo, andavo alla “Marconi” e non ci hanno fatto uscire dalla scuola», dice Giuseppe Pulvirenti. «Me lo ricordo benissimo e dopo tantissima attesa finì tutto bene», aggiunge Placido Tomasello. «Come se fosse ieri – prosegue Antonio Longo – il clamore per il nostro paese fu esorbitante». Sono alcuni dei pensieri di biancavillesi lasciati sulla pagina Facebook del nostro giornale.
Un tuffo nel passato. Una pagina di cronaca nera di 50 anni fa, fortunatamente senza gravi conseguenze. La rievocazione fatta da Biancavilla Oggi sugli eventi del 13 novembre 1975 ha suscitato molte reazioni social. In tanti, commentando il nostro articolo, sono riaffiorati ricordi di quella giornata, quando banditi a mano armata assaltarono la Banca di Credito, tenendo in ostaggio impiegati e clienti per 9 ore.
«Anche io mi ricordo di quella rapina – dice Angela Salamone – mio papà aveva una salumeria in via Vittorio Emanuele e quel giorno c’era un trambusto in tutta piazza Roma. Tiratori scelti sopra il Circolo Castriota, di fronte alla banca. Sono state ore di ansia per tutto il paese».
Strano e Carbone, carabinieri coraggiosi
A Biancavilla arrivarono alti ufficiali dei carabinieri e, appunto, anche tiratori scelti. Ma nella memoria collettiva, i protagonisti restano due: i carabinieri Salvatore Strano e Salvatore Carbone, che vediamo per la prima volta qui sopra, in uno scatto fotografico, mentre intervengono con pistole in pugno, uno a fianco all’altro. I due militari (ormai scomparsi) per primi intervennero con coraggio, al punto da avere poi un encomio solenne.
«Avevo 4 anni e – scrive Fabio Carbone, figlio del militare – ancora oggi, passati 50 anni, mi ricordo mio papà che durante la rapina era stato ferito per non essere investito dalla macchina dei complici. Sparò alle gomme, riuscendo a fermare uno dei malviventi. Stette fino alla sera, riuscendo ad arrestare un altro malvivente e porre fine alla “rapina del secolo”. Sono fiero di te, appuntato Carbone Salvatore… semplicemente papà. Riposa in pace ovunque tu sia».
«È un onore anche per tutta la nostra famiglia e – aggiunge Giuseppe Strano, figlio dell’altro carabiniere – sono lieto di questo riconoscimento anche dopo 5 anni dalla sua scomparsa, ma resterà sempre nei nostri cuori».
Altro ricordo, altra testimonianza di un familiare. «Io stavo tornando da scuola, quando arrivai a Biancavilla – scrive Carmelo Ricceri – seppi, già sul pullman, che stavano rapinando la Banca di Credito e preso in ostaggio gli impiegati insieme al direttore di banca (mio padre). Dopo, quando i banditi furono arrestati, si scoprì che erano dei poveri sventurati e sprovveduti. Chissà che fine hanno fatto».
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Storie
Quel “giorno da cani” a Biancavilla: 50 anni fa l’assalto alla Banca di Credito
Sparatorie, inseguimenti, tiratori scelti e trattative per gli ostaggi: per 9 ore un paese col fiato sospeso
Era il 13 novembre 1975. Nelle sale cinematografiche impazzava Quel pomeriggio di un giorno da cani, con Al Pacino, ispirato a una rapina vera. Ma quella mattina, a Biancavilla, la realtà superò la finzione: una banda di malviventi tentò un colpo clamoroso alla Banca di Credito (nei locali dell’attuale “Monte dei Paschi di Siena”, a due passi da piazza Roma), trasformando un tranquillo giovedì in una giornata di terrore e incredulità.
Alle otto e mezza, tre uomini, armati con due revolver e travisati con calze di nailon in faccia, fecero irruzione nella filiale, mentre un complice li attendeva in auto. Doveva essere un assalto rapido, ma la sorte – o forse l’improvvisazione – cambiò tutto. L’appuntato dei carabinieri Salvatore Strano e il collega Salvatore Carbone notarono movimenti sospetti e intervennero.
In pochi istanti, il centro di Biancavilla si trovò catapultato in uno scenario da film. Quando il “palo” cercò di fuggire, tentò di investire i militari, che furono costretti ad aprire il fuoco alle ruote dell’auto, riuscendo a fermarla. Dopo un breve inseguimento e una colluttazione, il complice venne ammanettato in un negozio poco distante.
Intanto, dentro la banca, i rapinatori capirono che il piano era fallito. La tensione salì alle stelle. Decisero di barricarsi, prendendo in ostaggio impiegati e clienti. I colpi esplosi in strada, le urla, il panico: Biancavilla cominciò a radunarsi attorno alla filiale, come se la vita del paese fosse rimasta sospesa dietro le mura di quegli uffici.
Le vie furono transennate, tiratori scelti presero posizione sui balconi degli edifici vicini, gli autobus deviati. Gli studenti di ritorno da scuola si trovarono davanti a un labirinto di sirene e cordoni di sicurezza.
Erano gli anni Settanta: anni di piombo, ma anche di ingenuità e solidarietà paesana. Si usciva di casa per “vedere cosa succede”. Curiosità e paura si mescolavano in una folla sempre più densa. Poco dopo, anche un elicottero dei carabinieri sorvolava la città. Biancavilla tratteneva il respiro.
Scene viste solo nei film
All’interno, l’avvocato Giuseppe Salomone, impiegato della banca, cercava di mantenere la calma. La figlia Antonella racconta a Biancavilla Oggi: «I rapinatori, saputo che mio padre era un uomo di legge, gli chiesero quali sarebbero state le probabili conseguenze del loro gesto. Lui, più da psicologo che da giurista, li invitò a ragionare, spiegando che rischiavano accuse gravissime: rapina a mano armata, sequestro di persona, minacce… Cercò di convincerli a consegnarsi».
Fu un dialogo surreale, in bilico tra paura e umanità. Anche per questo qualche mese dopo, dal carcere, i rapinatori inviarono una cartolina indirizzata “A tutti i ‘piegati’ della Banca di Credito…” per ringraziarli della calma e dignità dimostrate in quelle ore. Un gesto paradossale, ma che rivelava un residuo di coscienza dietro le maschere di quei giovani disperati.
Intanto fuori, le famiglie vivevano ore d’angoscia. Grazia Nuciforo, moglie dell’appuntato Strano, ricorda quei momenti a Biancavilla Oggi: «Appresi la notizia mentre davo da mangiare a mio figlio. Mi fu detto che mio marito era sul posto. Mi tremavano le mani. Ma lui, pur nel pericolo, mantenne il sangue freddo. Quando tutto finì, tirai un sospiro che non dimenticherò mai».
Dopo quasi otto ore di drammatiche trattative, quando cominciava a fare buio, la vicenda si avviò alla conclusione. Il generale dell’Arma giunto da Palermo convinse i malviventi ad arrendersi. Intorno alle 17 gli ostaggi furono liberati, nessuno perse la vita e Biancavilla poté finalmente respirare.
L’anno successivo, il coraggio dei carabinieri Strano e Carbone venne premiato con un encomio solenne del Comando Generale dell’Arma, a firma del generale di corpo d’armata, Enrico Mino.
Cinquant’anni dopo, quella giornata resta nella memoria collettiva non solo come pagina di cronaca nera, ma come frammento di un’Italia che cambiava. Un paese sospeso tra paura e speranza, improvvisamente protagonista di un film vero, senza alcun copione e senza alcuna finzione.
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