Cultura
Dal latino “carminare” allo “charme” francese: bisogna “cirmari i vermi”
Tutto nasce da un’infezione parassitaria intestinale: i bambini sanno bene cosa è “a virmina”

Molto comune, o almeno più diffusa di adesso, era in passato la verminosi dei bambini, in termini medici ossiuriasi o enterobiasi, un’infezione parassitaria intestinale che colpisce i bambini in età pediatrica. A Biancavilla questa infezione era conosciuta col nome di vermi (aviri i vermi) oppure virmina (aviri a virmina). Oggi sappiamo che l’agente che provoca l’infezione è l’ossiuro (Enterobius vermicularis). Si tratta di un verme di colore bianco che vive nell’intestino, la cui femmina depone circa diecimila uova. In passato si credeva che a provocare la verminosi era uno spavento.
Come infatti ci informa Pitrè (Medicina popolare siciliana, 1896), secondo le credenze popolari, i vermi si trovano già nell’intestino dei bambini, «si raccolgono e aggomitolano insieme in forma di ciambella, detta cuḍḍùra di li vermi» o, secondo le località, «ghiòmmiru di vermi» o «ṭṛizza rê vièrmi». La causa della verminosi era il «rimescolio» di questi vermi provocato dall’ingestione di latte, formaggio, succo di limone o dolci in eccesso.
Ma la causa scatenante, quella che faceva smòviri i vermi o faceva satari a virmina, era un forte spavento: a Biancavilla, infatti, fari satari a virmina significa “provocare un forte spavento”. A spaventare i bambini poteva essere un cane (nero) che ringhiava, un topo, una lucertola, un serpente, apparsi all’improvviso alla vista o percepiti nel buio, ma anche un racconto pauroso, una scena di violenza, lo sbattere improvviso di una porta ecc. Anche la madre poteva provocare lo scantu al bambino, con i rimproveri, le minacce, le percosse «che provocano nel bambino uno stato di stress […]. In ragione di uno scantu l’equilibrio dell’organismo si spezza, essendo in primo luogo compromesso il sistema nervoso» (Elsa Guggino, Fate, sibille e altre strane donne, Palermo, Sellerio, 2006).
Per curare la verminosi, disponiamo oggi di efficaci cure farmacologiche, ma in passato non era così. L’etnoiatria o medicina popolare disponeva di rimedi naturali, più o meno efficaci, e rimedi soprannaturali. Quelli naturali possono essere rimedi interni (alimenti da ingerire) o esterni. Si ungevano le narici dei bambini con la nafta oppure si facevano odorare delle erbe particolari che variavano da zona a zona. Si applicavano sullo stomaco dei bambini diversi cataplasmi (picati, stumacali ecc.).
Quando questi rimedi non avevano effetto, si ricorreva a quelli soprannaturali in grado di affascinare, incantare i vermi per farli uscire. Questa pratica a Biancavilla era detta cirmari i vermi. Vi erano delle persone riconosciute, soprattutto donne, in grado di affascinare i vermi che, dopo avere “visitato” il malato, tracciavano col pollice una croce sull’addome, facendo anche un massaggio con movimento circolare e recitando una serie di orazioni, delle litanie spesso indecifrabili, che si concludevano con la preghiera del Padrenostro. Di una di queste orazioni ho carpito da piccolo alcune parole, il primo verso, che mi è rimasto impresso: Campana santa, campana latina … (i puntini di reticenza sono un palese invito ai lettori e alle lettrici a completare l’orazione o a proporne altre).
La virtù di affascinare i vermi si acquisiva la notte di Natale. Il predestinato guaritore doveva recitare una particolare orazione seguita dal Padrenostro. In alcune località, nel mese di maggio, in una notte di luna piena, il guaritore raccoglieva un bruco dei cardi e si legava al dito la sua spoglia con una striscia di tela per tre giorni. In questo modo la sua mano era adatta a cirmari o ciarmari (e ggiarmari, nciarmari) “affascinare, incantare”. C’era anche l’acqua ciarmata o ggirmata “acqua adoperata dalle fattucchiere per compiere malefici”; scherzosamente poteva indicare il vino di qualità scadente.
In diverse parti della Sicilia questo guaritore o guaritrice era chiamato/-a ciarmavermi, identificabile, secondo la considerazione popolare, come un «medico empirico». Era lui/lei, infatti, a riconoscere u scantu, cioè la paura improvvisa, come causa prima di alcuni disturbi allo stomaco e in particolare dei vermi. Come scrive l’antropologa Elsa Guggino, «esito di uno scanto può anche essere l’incorporazione di un essere, ossia di un’anima vagante per l’aere e casualmente di passaggio mentre, in ragione di uno spavento, l’individuo sussulta e apre la bocca ispirando con l’aria anche qualche essere “di passaggio”».
Sono presenti, anche se pochi, gli usi letterari. Per il verbo troviamo Severino Santiapichi (Romanzo di un paese, 1995):
Lo ‘ciarmavano’ mormorando parole insensate, farfugliamento penoso di relitti di formule antiche annegate dal tempo…
E Gianni Bonina (I sette giorni di Allah, 2012):
A Palazzolo, per esempio, credono tutti al potere dei “ciarauli” che guariscono con la saliva e “ciarmano” i serpenti, simbolo demoniaco per eccellenza. Fino a poco tempo fa andavano in processione dietro il fercolo.
Del nome fa uso Gesualdo Bufalino (La luce e il lutto, 1988):
Solo qualche vegliarda che ha passato i settanta, una “marabecca”, una “mammadraga”, una “ciarmavermi”, serba ancora nella memoria e ripete a bassa voce, dopo avere sprangato l’uscio, una cantilena per “legare” i cani…
Di grande interesse linguistico e culturale è la storia di questa parola. Diciamo, infatti, che cirmari, variante di ciarmari, deriva dal francese antico charmer (leggi: ciarmer), a sua volta dal tardo latino CARMINARE “far versi” e “incantare”, derivato di CARMEN che, oltre a “canto, canzone, poesia, poema ecc.” aveva i significati di “profezia”, “formula magica”, “incantesimo”. Da CARMEN, attraverso il francese antico charme, deriva anche ciarmu, cermu “formula o gesto magico”. Le voci francesi hanno avuto una grande fortuna in Italia, collegata alla diffusione di pratiche magiche, che raggiungono anche l’inglese, come testimonia il verbo to charme “to recite or cast a magic spell”.
PER SAPERNE DI PIU’
“La Sicilia dei cento dialetti” di Alfio Lanaia
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Cultura
«Il Palazzo Portale sia acquistato dal Comune per esporre gli antichi reperti»
Proposta dell’associazione “Biancavilla Documenti” indirizzata all’amministrazione Bonanno
L’associazione culturale “Biancavilla Documenti” ha presentato una proposta al Comune affinché valuti l’acquisto del piano nobile del Palazzo Portale, attualmente messo in vendita (con il giardino) dagli eredi a 800mila euro, con l’obiettivo di destinarlo a sede museale per accogliere la collezione archeologica appartenuta al canonico Salvatore Portal (1789–1854).
La proposta è firmata dal presidente Antonio Zappalà e dal segretario Salvuccio Furnari. L’invito all’amministrazione comunale è a verificare la congruità del prezzo dell’immobile per un’eventuale acquisizione al patrimonio comunale.
Secondo l’associazione, il Palazzo Portale — edificio di alto pregio architettonico situato nella centrale piazza Roma e dotato di uno spazio verde esterno — rappresenterebbe la sede più appropriata e storicamente significativa per ospitare i reperti del celebre abate biancavillese. In passato, infatti, proprio in quell’area era stato allestito l’antico orto botanico creato dallo stesso Portal, noto non solo come ecclesiastico, ma anche come naturalista e ricercatore scientifico.
La collezione archeologica
L’intera collezione di vasi, anfore, ceramiche, terrecotte e altri reperti raccolti da Portal è, grazie alla disponibilità degli eredi, destinata a Villa delle Favare per farne il primo museo civico.
«Riteniamo che il Palazzo Portale – si legge nella nota dell’associazione – sia la sede ideale, storicamente appropriata e legata familiarmente al nostro Portal, ricercatore e scienziato. È quindi il luogo più idoneo per l’allocazione e l’allestimento di un museo che custodisca la pregiata collezione».
L’associazione sottolinea, inoltre, che è ancora in corso l’iter per il riconoscimento giuridico e la definizione delle modalità operative legate alla tutela, alla donazione e alla futura fruizione pubblica dei reperti. Con questa iniziativa, “Biancavilla Documenti” intende stimolare una riflessione sul valore culturale e identitario della figura del canonico Portal e sulla necessità di conservare e valorizzare la sua eredità in uno spazio che ne rappresenti la memoria storica e scientifica.
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Cultura
“Nella mente dei briganti”, incontro in Accademia sul libro di Filadelfio Grasso
La storia analizzata con gli strumenti della psicologia sociale nel volume “Nero su Bianco Edizioni”
Chi furono i briganti? Uomini comuni, eroi, combattenti romantici e dai sentimenti nobili oppure uomini spietati, sanguinari e psicologicamente disturbati? Interrogativi su cui Filadelfio Grasso tenta di rispondere. Lo fa esplorando le radici del fenomeno, il contesto storico dall’Unità d’Italia ai primi del Novecento, le dinamiche sociali e le condizioni economiche che spinsero uomini comuni a ribellarsi contro le ingiustizie, il modo in cui erano visti dalla comunità in cui vivevano.
Ne viene fuori una ricerca affascinante, racchiusa nel volume “Nella mente dei briganti”, pubblicato da Nero su Bianco Edizioni. Il brigantaggio siciliano analizzato con la lente della psicologia sociale. Un volume presentato alla numerosa platea dell’Accademia Universitaria Biancavillese. All’intervento della presidente Rosa Lanza, si sono affiancati quella dell’editore Vittorio Fiorenza e dello psicoterapeuta Alessio Leotta, che con l’autore hanno tratteggiato uno studio che si è avvalso di un approccio scientifico inedito.
«È come se Filadelfio Grasso – ha detto Fiorenza – avesse fatto sdraiare sul lettino dello psicoterapeuta quei personaggi, sottraendoli per un attimo a un passato controverso, e li avesse fatti parlare. Non per giustificare i loro atti, ma per comprendere gli aspetti emotivi e intimamente interiori che hanno dato origine al fenomeno del brigantaggio».
Briganti, dall’Etna al Simeto
Attraverso testimonianze e documenti, l’autore ha focalizzato l’attenzione su personaggi legati a Bronte, Adrano, Biancavilla, Santa Maria di Licodia, Paternò, Belpasso e Centuripe. Non soltanto banditi, ma anche personalità emblematiche, travolte dalla rabbia e dalla disperazione in un’Italia postunitaria segnata da ingiustizie e promesse disattese.
«Il brigantaggio post unitario – sottolinea Filadelfio Grasso – fu una forma di difesa da parte di chi vide un proprio diritto leso, calpestato. Fu una difesa da quelle che vennero considerate prevaricazioni. Ci si difese come fu possibile. La coesione, la ribellione e l’aggressività furono all’ordine del giorno. Alla scelta di conformarsi da parte di molti, si aggiunse da parte di tanti altri anche una evidente rinuncia sociale che si manifestò in una massiccia emigrazione verso terre lontane. Frustrazione, delusione e rabbia, unite al forte senso di deprivazione relativa, furono all’ origine del comportamento violento e aggressivo».
Un’opera che va oltre il freddo racconto dei fatti e che indaga il pensiero, le emozioni e le motivazioni interiori dei briganti, offrendo una nuova prospettiva su una delle pagine più controverse e complesse della storia italiana.
Le socie e i soci dell’Accademia Universitaria Biancavillese hanno poi animato un vivace e articolato dibattito con interventi sulle condizioni della Sicilia pre e postunitarie, sul ruolo di Garibaldi e dei Mille, sulle condizioni che il nuovo Regno impose alle popolazioni meridionali, sulla mancata suddivisione delle terre, sul clima di delusione per le speranze represse. Un contesto che ha generato quegli uomini, appellati “briganti”, che hanno preferito darsi alla macchia.

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