Storie
L’illusione della fine del fascismo: Gerardo Sangiorgio nei lager nazisti


di SALVATORE BORZI’
Venticinque luglio 1943: il Gran Consiglio del Partito Fascista depone Mussolini. La notizia porta con sé la speranza del ritorno di pace e libertà dopo terribili anni di guerra e di oppressione del pensiero. La gioia – a lungo attesa – poteva ora riunire gli animi e avviare l’attesa ricostruzione morale.
Questa illusione prende forma in una missiva – che Biancavilla Oggi pubblica per la prima volta – di un umanista del nostro tempo, il biancavillese Gerardo Sangiorgio.
La lettera in questione è datata 28 Luglio 1943, appena dopo il susseguirsi convulso degli annunci delle dimissioni del Duce, del ritorno del comando delle forze armate al Re e del nuovo governo Badoglio, nonché dello scioglimento del Pnf. È inviata da Piacenza al fratello Francesco a Roma (l’occupazione americana della Sicilia e i servizi ora ridotti a macerie non permettevano altre comunicazioni con i familiari).
L’intellettuale ha nel cuore il rientro a casa e il ritorno agli studi dopo gli anni del forzato servizio militare: «Franco carissimo, ti chiedo scusa se non ho risposto con sollecitudine alla tua del 20 c.m. Le circostanze di questi giorni me ne hanno distolto. Comunque, sappi che sto benissimo e col morale più elevato che mai, forse al pari di te e di tutti. Ti bacio caramente. Gerardo». Motivo del morale “più elevato che mai” è, ovviamente, la fine illusoria del “Ventennio”, perciò della guerra. Ma la gioia, che prende corpo oltre la censura militare, di lì a poco metterà a rischio la sua stessa pelle.
Il diniego all’adesione a Salò, poi i vagoni piombati
Parma, 8 settembre 1943, Scuola di Applicazione di Fanteria, sera, «un silenzio ovattato di attesa, colorato del rosso tenue di un sereno tramonto». Così Gerardo descrive il suo arrivo in questa città da Piacenza, quando non sapeva ancora di stare per vivere l’episodio più tragico della sua esistenza, uno di quelli che – se sopravvivi – ti marchiano per sempre: i soldati tedeschi, che da alleati erano diventati, nel giro di poche ore, nemici, prendono possesso nella notte della caserma, vincendone la pur valorosa resistenza.
Giunge presto il suo diniego, ripetuto con forza, dell’adesione a Salò. Ora il silenzio, si fa assordante dello sparo dei mitra, ti mette fredda angoscia col sospenderti nell’attesa che qualcosa comunque accadrà, e non sai cosa. Ultima sosta a Mantova, nel campo di raccolta, per recuperare qualcosa; estremo falso segno di rispetto, di ipocrita pietà. Gerardo Sangiorgio sarebbe stato caricato da lì su «vagoni piombati» come «merce comune identificata solo da un numero», presagio di imminente orrendo destino: l’inferno dei campi di Neubranderburg, di Bonn e Düisdorf, collegati dai binari della morte.
Qui i prigionieri furono privati di ogni cosa, anche della consapevolezza di essere ancora, nonostante tutto, uomini, e costretti a turni di lavoro massacranti in una «Magnetfabrik». Dovevano smerigliare piccoli oggetti fino a ridurli ad uno spessore molto sottile. Si conviveva fianco a fianco con la fine ignota. Scarsa alimentazione, disumana rappresaglia per un misero furto di patate, eppure – in questo Sangiorgio maestro della letteratura contranceazionaria – qualche gesto di umanità tra il gelo: «Furtivamente si allungava da una finestra della fabbrica la mano di un operaio tedesco per deporre sul davanzale un involtino contenente un poco più che trasparente pezzo di pane», lo stesso forse che gli detterà la lirica “Un pezzo di pane calpestato”.
La barbarie non spense la fiamma della libertà
Tutto ciò non riuscì a farlo capitolare. Nutrito dall’amore per la famiglia e da un’immensa fede in Dio, che dà anche il metro della dimensione religiosa del suo antifascismo, Gerardo Sangiorgio interiorizzò il motto che racchiude l’antifascismo europeo di stampo cristiano: etiamsi omnes ego non (Se anche tutti, io no; Mt 26,33), parole rivolte da Pietro a Cristo nell’imminenza della crocifissione. Questi due sentimenti animano tanti luoghi degli scritti, fra cui una lettera, già da me altrove pubblicata (Annuario Beni Culturali del Comune di Biancavilla 2006, p. 17), inviata alla famiglia il sei agosto 1944 dallo Stalag VI G, dove fra l’altro si legge: «Salute e morale stanno benissimo: il Signore mi aiuta, non per mio merito, ma per i meriti Vostri».
È chiaro che l’intellettuale deve mentire per far sì che la lettera passi le strettissime maglie della censura nazista, facendo sì che famiglia possa ancora sapere della sopravvivenza. La sincera euforia della missiva precedente ha ceduto il posto alla menzogna. La barbarie nazista ha inteso punirlo così della gioia che ha osato provare nel fausto giorno della fine di un’altra barbarie. Voleva annientarlo dentro. Non ci riuscì, non poteva spegnere la fiamma ardente della passione e dell’amore per la libertà. Non le restava che l’azione più vile, ucciderlo nel corpo con la crudeltà che la contraddistingueva.
La banalità del male e la salvezza… in 800 grammi
Ogni giorno i Tedeschi pesavano i prigionieri per verificarne l’abilità al lavoro. Il peso limite era quaranta chili. Chi scendeva al di sotto veniva destinato alla soppressione. Eseguivano questo lugubre compito con sbalorditiva precisione. La banalità del male. Una sera il peso del corpo di Gerardo superava i quaranta chili di ben ottocento grammi! Furono quelli che, probabilmente, gli salvarono la vita.


Gerardo Sangiorgio in età anziana in un frame di Video Star
L’indomani gli Americani, «ciechi strumenti della Provvidenza», cominciarono a bombardare il campo, strappando «a una vita di stenti, di fame, di freddo, di lavoro massacrante, alcuni poveri infelici», che furono restituiti ad una vita degna di essere umano. Non tutto era però ancora finito.
I sopravvissuti furono abbandonati al loro destino. Gerardo fece a piedi i 100 km da Düisdorf ad Aachen, dove trovò un campo di raccolta, da cui finalmente fece ritorno in patria, alla normalità. Inevitabili i pubblici riconoscimenti, ma questo poco importa.
Tale, in sintesi, la nobile, inarrivabile risposta alla barbarie nazista, che di quella Caritas di cui Sangiorgio volle essere testimone è l’esatta tragica negazione. Di lui Massimo Cacciari, ha scritto «la sofferenza, per i grandi, non è fonte solo di dolore, […] ma energia che consente di apprendere e comunicare agli altri»; mentre Claudio Magris: uno di quei rari uomini che «ci permettono di credere ancora, nonostante tutto, nell’umanità».
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«Mio padre, Gerardo Sangiorgio»: il commovente ricordo del figlio
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Storie
Maurizio Costanzo e il suo “sosia” Giuseppe Petralia di Biancavilla
Il ricordo di un incontro al Parioli: «Mi somiglia veramente, forse ci hanno divisi alla nascita»


Giuseppe Petralia è un giornalista di Biancavilla. La sua somiglianza con Maurizio Costanzo incuriosì lo stesso conduttore televisivo, al punto da volere salutare il collega dal palco del Parioli.
A ricordare quell’episodio è ora Petralia, da decenni collaboratore del quotidiano “La Sicilia” e corrispondente da Biancavilla negli anni ’70 e ‘80.
«La notizia della morte di Maurizio Costanzo – dice Petralia – mi è tanto dispiaciuta e reso triste. Ho avuto l’onore di conoscerlo personalmente come invitato alla trasmissione “Maurizio Costanzo Show” perché ero stato segnalato come suo sosia».
«Lei è il mio sosia, mi somiglia veramente, forse ci hanno divisi alla nascita», disse Costanzo a Petralia ad inizio di una puntata del suo programma su Canale 5.
«Dopo la trasmissione –ricorda ancora il giornalista biancavillese – ci siamo incontrati dietro al palco, dove Maurizio è stato nei miei confronti molto affabile e gentile. Quando mi ha salutato, mi ha detto “Se vieni a Roma, vienimi a trovare”. Purtroppo non ho potuto avere questa opportunità. Grazie amico e giornalista, riposa in pace».
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