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Cultura

I “vastunedda” di San Giuseppe e il gesto del nonno per la piccola Giulia

Un rituale con una pagnotta allungata per i bambini che si apprestavano a fare i primi passi

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© Foto Biancavilla Oggi

È proprio da qui che vogliamo partire. Da Giulia, una bambina di Biancavilla che ha da poco compiuto un anno. Per lei, il nonno ha deciso di fare qualcosa di speciale: rispolverare una tradizione antica, quasi dimenticata, e prepararle i vastunedda di San Giuseppe. Lo ha fatto con lo stesso amore e la stessa fede con cui, un tempo, ogni famiglia contadina affidava i propri figli alla protezione del Santo. Un gesto semplice e potente, che collega passato e presente, radici e futuro.

Le tradizioni non sono solo ricordi da conservare nei cassetti della nostalgia: sono chiavi per leggere il presente con gli occhi del passato e per costruire il futuro con radici forti. Come tanti altri riti della nostra civiltà contadina, anche questa usanza ci ricorda che un tempo ogni passo – anche quello di un bambino – era accompagnato dalla comunità, dalla fede, dal pane della condivisione.

Oggi che tutto corre veloce e spesso senza direzione, forse vale la pena fermarsi e chiedersi: cosa resta di noi, se perdiamo anche i nostri gesti più semplici? Recuperare, tramandare, riscoprire: sono verbi che tocca a noi coniugare.

La fede che si toccava con mano

C’era un tempo, non poi così lontano, in cui a Biancavilla la fede si toccava con mano: tra il profumo del pane caldo e il sussurro di una preghiera, si compiva un gesto semplice ma carico di significato. Era il rito de i vastunedda di San Gnuseppi.

Non era folklore da cartolina, ma un gesto antico, carico di fede e affetto, che accompagnava i primi passi di un neonato con una pagnotta offerta e una preghiera sussurrata.

Oggi, quella tradizione rischia il silenzio. Ma raccontarla – e magari riscoprirla, come ha fatto il nonno di Giulia – è un modo per riconnettersi con ciò che siamo davvero: un popolo che ha saputo trasformare ogni gesto quotidiano in un piccolo atto sacro.

Il cuore di una tradizione

A Biancavilla, si custodisce un patrimonio immateriale fatto di gesti, parole, riti e memorie. Pur con una storia relativamente recente rispetto ad altri centri siciliani, il paese ai piedi dell’Etna si presenta come un microcosmo ricco di tradizioni che parlano la lingua della civiltà contadina e della devozione popolare.

La cultura contadina, qui, non era solo un modo di produrre: era una visione del mondo. Basata su un rapporto intimo con la terra, sui ritmi delle stagioni e sul rispetto dei cicli naturali, essa si accompagnava a una forte componente spirituale, fatta di affidamento e speranza.

L’estate, stagione regina nella campagna etnea, segnava il tempo della mietitura del grano: il frutto più prezioso del lavoro dell’anno. Il frumento diventava pane, alimento sacro e quotidiano, ma anche simbolo di vita, di comunità, di benedizione. Ogni spiga raccolta era, in fondo, una preghiera silenziosa. E con il pane si celebravano anche i riti di passaggio, come quello dei primi passi, che la tradizione affidava proprio a San Giuseppe.

L’impotenza dell’uomo di fronte ai grandi eventi della vita – la malattia, la morte, la carestia – veniva colmata da una fede concreta e quotidiana, radicata nei santi. Tra questi, spicca la figura di San Giuseppe, figura paterna per eccellenza.

I vastunedda di San Gnuseppi

Una delle tradizioni più originali e toccanti, oggi quasi scomparsa, è quella de i vastunedda di San Gnuseppi. Quando un neonato cominciava a reggersi in piedi, in quella fase che precede i primi passi, la madre – o talvolta una nonna o una zia – dava inizio a un rituale di nove giorni. Ogni giorno veniva preparata una pagnotta allungata (la vediamo in foto in mano a Giulia). La sua forma era simile a un bastone (da cui il nome). Veniva offerta al primo ospite che varcava la soglia di casa. In cambio, si chiedeva una preghiera al santo perché il bambino potesse presto camminare.

Il bastone evocato non è solo un riferimento al tradizionale simbolo del Santo, ma anche una metafora del sostegno: quello fisico, nei primi passi, e quello morale e spirituale lungo tutto il cammino della vita. Non si chiedeva solo la salute del corpo, ma anche protezione e guida.

Significativa, in questo senso, è l’iscrizione posta sul disco sopra l’altare di San Giuseppe nella Chiesa Madre di Biancavilla: «Fac nos, Dive Joseph, patrocinio tuo tutam decurrere vitam» (Fa’, o glorioso Giuseppe, che sotto la tua protezione possiamo percorrere in sicurezza il cammino della vita). La tradizione si concludeva spesso con una preghiera popolare in dialetto. Eccone una:

San Gnusippuzzu comu ‘lliuni

ni riparati ccu lu vostru vastuni.

San Gnusippuzzu nan vu liati

ccu lu vastuni vui ni riparati.

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Cultura

In Svizzera le carte personali di Antonio Bruno: incontro all’Università di Berna

Studiosi internazionali alla conferenza di Placido Sangiorgio sul poeta futurista di Biancavilla

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L’Istituto di Lingua e Letteratura italiana – Philosophisch-historische Fakultät dell’Università di Berna ha appena chiuso la Summer School: “Altre fonti. La società letteraria del Novecento attraverso gli archivi”.

Nella giornata conclusiva, presso la Biblioteca Nazionale Svizzera, le carte personali di Antonio Bruno, custodite presso la Biblioteca Comunale “Gerardo Sangiorgio” di Biancavilla, sono state oggetto di attenzione da parte di studiosi internazionali.

La relazione dal titolo: “I protagonisti del Novecento letterario nell’archivio del poeta futurista Antonio Bruno (1891 – 1932)”, tenuta da Placido A. Sangiorgio, ha inteso fare dialogare i documenti del fondo archivistico biancavillese tra di loro con altri archivi che custodiscono testimonianze del poeta.

Ad esempio, si trova a Biancavilla una lettera di Giovanni Papini che ispirò ad “Antonuzzu” l’abbozzo di una sintesi futurista. Alla Beinecke Library dell’Università di Yale ci sono le missive di Antonio Bruno a Marinetti, alcune sue tavole parolibere, un testo in francese del padre del futurismo proprio su Antonio Bruno.

Di particolare rilevanza le testimonianze relative alla rivista dadaista “Circo” del 1916, pensata dal poeta, allora a Firenze, per raccogliere in numero ristretto una serie di scelti collaboratori. Tra questi Giuseppe Ungaretti che dalla “Zona di Guerra” gli inviò il testo “I ritrovi”. E ancora Dino Campana, che trovava nel poeta biancavillese «quella saldezza della tempra aristocratica», carattere necessario per «salvare la letteratura».

Da Verga a Deledda

Curiosa una lettera del Giovanni Verga, osannato dai futuristi, che rimbrotta a Bruno il suo paroliberismo, come del resto il sodale Giovanni Centorbi dell’avventura di “Pickwick” che, sotto i portici veronesi, aveva visto in un giornale con il lancio di “Fuochi di Bengala”. Pieno di rancore, invece, un biglietto di Federico de Roberto, che fa pagare a Bruno l’ardire di aver chiesto la mano della nipote Nennella.

Altra pagina i diari pieni di considerazioni letterarie e umane (tra queste il confronto tra Palazzeschi e Papini e le belle serate trascorse con Emilio Settimelli), oltre a vari “temi di donne”. Documentata anche la fase romana in cui il poeta frequentava la terza saletta del Caffè Aragno. A questo periodo appartiene l’incontro con Arturo Onofri e con la futura premio Nobel Grazia Deledda. Nelle ultime testimonianze c’è già la mutata temperie politico-sociale: tra i corrispondenti, infatti, Giuseppe Antonio Borgese e Margherita Sarfatti.

Carte, certo, da scoprire, valorizzare, restituire alla conoscenza collettiva, anche in virtù del fatto che il fondo archivistico biancavillese, donato nel 2011 da Alfio Fiorentino, è la più unitaria e alta testimonianza del futurismo (e della letteratura d’avanguardia) nell’Isola. Un tesoro del quale essere orgogliosi.

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Cultura

I mortaretti innescano il conto alla rovescia: un mese e… sarà San Placido

Il 5 settembre, una data simbolo: Biancavilla verso la grande festa (religiosa e civile) per il suo patrono

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Austu cucina e sittembiri minestra: un proverbio che in poche parole racconta la saggezza contadina di chi sapeva leggere il ritmo delle stagioni. Agosto offre il raccolto, settembre lo mette in tavola. È l’inizio autentico dell’anno contadino, civile e religioso. E qui, il tempo ha un ritmo preciso. A Biancavilla, questo passaggio è segnato ogni 5 settembre da un evento tanto simbolico quanto atteso: lo sparo dei mortaretti per annunciare che trasìu u misi a San Prazzitu. È il primo segnale che risveglia la memoria della comunità e dà il via a un conto alla rovescia carico di attesa e significato: tra un mese esatto sarà la festa di San Placido.

Preparativi antichi, attese senza tempo

Un tempo, questo giorno era l’avvio concreto dei preparativi, delle contrattazioni, l’inizio di una mobilitazione corale. Si montavano le logge di legno per ospitare i firanti della grande fiera, si stipulavano accordi con mastri pirotecnici e bande musicali, si allestivano le impalcature per le luminarie che avrebbero adornato le vie principali e il palco in piazza. Il campanile della matrice veniva costellato da migliaia di lucine elettriche che si sarebbero accese nei giorni di festa, rendendolo visibile anche nelle ore notturne, come una magia. A sostenere tutto questo non era l’amministrazione comunale, che si limitava a pochi contributi essenziali, ma la devozione popolare, organizzata dalla Confraternita del SS. Sacramento, i cui confrati passavano di casa in casa, nelle botteghe e nei circoli a raccogliere offerte. Era il popolo stesso a “costruire” la festa.

Nel frattempo, anche nelle case ci si preparava con la stessa intensità. Le donne cucivano abiti nuovi da sfoggiare nei giorni solenni, mentre gli uomini, aiutati da tutta la famiglia, mmazzavano ’u porcu allevato in casa per un anno intero cch’i favi e a canigghia. Niente era lasciato al caso. Anche il cibo, come i vestiti e i gesti, aveva un significato rituale: era memoria, sacrificio e condivisione.

I “doni” di settembre

Settembre portava altri doni. Nelle campagne si cutulavano le mandorle, un tempo abbondanti nel nostro territorio. Poi, in famiglia, si sgusciavano, si separavano dal mallo e si essiccavano al sole davanti agli usci e nei cortili. Infine si conservavano per durare tutto l’anno.

Nei vigneti a nord del paese, la vendemmia era una festa vera, fatta di fatica e gesti rituali. Famiglie intere si riunivano nei filari, assegnandosi ruoli e compiti precisi, tra animali da soma, cesti pieni d’uva e canti popolari. Era il trionfo della cooperazione e della fatica condivisa.

Oggi tutto è più veloce e last minute: con internet, tablet e smartphone gli eventi vengono pianificati e pubblicizzati via social e quel tempo lento e solenne sembra lontano. Eppure, settembre conserva ancora un’aura speciale: è il mese in cui si ritorna alla normalità dopo la sospensione estiva, si riprende la scuola, il lavoro, la vita sociale e la programmazione ecclesiale. A Biancavilla, invece, è ancora soprattutto il periodo prima di San Placido. Un mese che non guarda solo al futuro, ma affonda le sue radici in una memoria collettiva che ha plasmato l’identità del paese.

Una devozione con radici profonde

La figura di San Placido, monaco benedettino e martire, è da oltre quattro secoli il fulcro della devozione biancavillese. La tradizione vuole che, nel 1588, dopo il ritrovamento del corpo del santo a Messina, le sue reliquie venissero portate in processione nei principali centri della Sicilia. Il carro che trasportava le sacre spoglie aveva appena fatto tappa al monastero di Santa Maria di Licodia ed era diretto ad Adrano, senza fermarsi a Biancavilla, allora piccolo borgo di povera gente. Ma, giunto al confine tra i due territori, accadde qualcosa di prodigioso: il mulo si arrestò, impuntandosi, e nonostante ogni sforzo non volle più muoversi. Fu interpretato come un segno: il santo desiderava restare lì. Quel punto prese il nome di pidata di San Prazzitu, la pedata di San Placido.

È solo una leggenda – tramandata anche da Giuseppe Pitrè e di cui esistono più varianti – ma, come spesso accade, la forza del mito vale quasi quanto la verità storica. In essa si riconosce il bisogno della comunità di sentirsi scelta, benedetta, parte di una storia più grande. San Placido non è solo il protettore celeste, ma il simbolo di un’identità che ha saputo unire fede, lavoro, sacrificio e speranza. E anche se i tempi cambiano, settembre resta il mese in cui Biancavilla si raccoglie attorno alla sua memoria più viva. È il mese in cui il cielo si fa più terso, le prime piogge fecondano la terra e ogni cosa sembra ricominciare il suo ciclo. Ecco perché, ogni anno, quando i mortaretti del 5 settembre rompono il silenzio, non si annunciano solo dei preparativi: si riaccende il cuore pulsante dell’intera comunità.

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