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Cronaca

Ergastolo definitivo a Massimo Merlo: i retroscena dell’omicidio Maccarrone

Sentenza della Corte di Cassazione: determinanti il video del delitto e alcuni collaboratori di giustizia

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La sentenza è definitiva: carcere a vita per il biancevillese Massimo Merlo, ritenuto l’autore dell’omicidio di Maurizio Maccarrone, avvenuto ad Adrano nel novembre 2014. Un delitto compiuto assieme a Massimo Di Maria (un licodiese deceduto per malattia) e commissionato dal paternese Antonio Magro (già condannato a 30 anni con rito abbreviato). Il movente è passionale: la vittima aveva cominciato una relazione extraconiugale con una donna, che era stata legata a Magro, determinato fino all’ossessione a non accettare la fine della storia.

Ma la storia – come è in grado di ricostruire Biancavilla Oggi – ha uno sfondo mafioso: mandante e killer hanno precedenti penali e ritenuti membri del clan Laudani, i mussi di ficurinnia. Magro era considerato il braccio destro di Turi Rapisarda, riferimento indiscusso a Paternò. Di Maria era il “rappresentante” a Santa Maria di Licodia. Merlo è personaggio noto agli inquirenti fin dai blitz degli anni ’90 con il clan Toscano – Mazzaglia – Tomasello, per poi bazzicare ad Adrano e con il desiderio di avere un gruppo autonomo.

Massimo Merlo si è professato innocente in tutte le fasi delle indagini e del processo. La sua colpevolezza è stata riconosciuta in tutti e tre i gradi di giudizio, confermando la pena dell’ergastolo per omicidio volontario, aggravato dalla premeditazione. Pena confermata in via definitiva dalla Corte di Cassazione: da qui, il suo trasferimento dal carcere di Siracusa a Napoli.

Quindici secondi per uccidere

È stato lui, secondo i giudizi, ad esplodere i colpi di pistola – in una sequenza dell’orrore durata 15 secondi – che hanno fatto stramazzare a terra Maccarrone. L’uomo era appena uscito di casa ed era intento ad aprire la portiere della sua auto per andare al lavoro in una struttura sanitaria di Biancavilla, la stessa in cui era impiegata la donna “contesa”.

Con caschi integrali, guanti e tute imbottite, i killer sono arrivati in via Cassarà, ad Adrano, in sella ad uno scooter (guidato da Di Maria). Con il mezzo ancora in movimento, Merlo ha sparato da distanza ravvicinata, senza che Maccarrone abbia avuto il tempo di comprendere cosa stesse accadendo. Poi, Merlo si è avvicinato alla vittima, stramazzata a terra, e ha esploso i colpi di grazia. 

«Ci i’ d’arreri… n’aricchi accussì… pum (indica l’esplosione di un’arma da fuoco, ndr)… e gridava… gridava… ittava vuci»: è un’agghiacciante intercettazione finita agli atti, seppur oggetto di contestazioni dovuti ad un audio disturbato e non attribuibile con certezza (vedi il video in fondo alla pagina).

L’esecuzione dell’omicidio è stata ripresa da una telecamera di videosorveglianza privata. Immagini (vedi il video sopra) utili agli inquirenti e alla polizia di Adrano, che si sono avvalsi di alcuni collaboratori di giustizia.

La intenzioni di scalata del clan

Uno di questi è Gaetano Di Marco. È stato lui a svelare l’organizzazione de delitto, cominciate un paio di mesi prima con incontri in un bar di Biancavilla, appostamenti, pedinamenti, sopralluoghi per annotare abitudini e movimenti di Maccarrone, a casa sua e nel luogo del lavoro.

Quell’omicidio avrebbe dovuto avere anche altre finalità, oltre a quelle del “delitto d’onore”). «Secondo le intenzioni di Antonio Magro, questo doveva essere – si legge nelle carte giudiziarie sulla base delle dichiarazioni di Di Marco – il primo di una serie di omicidi (di fatto non avvenuti, ndr) da eseguirsi prima di Natale, all’esito dei quali lo stesso collaborante e il Merlo dovevano prendere il posto di Maccarrone Pietro come responsabili degli Scalisi di Adrano».

Pietro, cugino dell’uomo freddato in via Cassarà, pur essendo a conoscenza della relazione intrecciata dal parente, non avrebbe immaginato che si sarebbe arrivati ad un epilogo mortale, come ha chiarito Nicola Amoroso, altro pentito: «Pensava di impaurirlo o di spararci… di impaurirlo o fare qualche altra cosa, ma no di ucciderlo».

L’entrata in scena di Merlo

Orazio Farina è un altro collaboratore che ha dato il suo contributo: quella di Massimo Merlo non è stata la prima opzione nella scelta dell’esecutore. Farina sostiene di avere ricevuto lui, in primis, la richiesta da Magro “di abbattere una persona di Adrano”. Richiesta rifiutata perché finalizzata ad un delitto con motivazioni ritenute personali e non “mafiose”. Da qui, l’entrata in scena di Merlo.

Anche Vincenzo Pellegriti, collaboratore di giustizia biancavillese determinante nel blitz Ultimo atto, ha accennato a Merlo e all’omicidio Maccarrone: «Uscendo nel 2015 da una carcerazione di sette anni, la prima persona che sono andato a ritrovare è stato Massimo Merlo, per farmi spiegare come stavano funzionando le cose in paese e so che lui aveva gli arresti domiciliari. Vado da lui una volta, due volte, tre volte e mi consiglia di non mettermi con nessuno perché era un brutto periodo e si stavano sparando tutti. Appena (incomprensibile, ndr)… le discussioni, mi viene a dire: “L’hai visto l’omicidio di Adrano? Sono stato io, perché io ormai mi voglio fare un gruppo”».

Nonostante questo quadro, la difesa degli imputati ha dato battaglia, sostenendo l’assenza di prove oggettive, oltre alle ripetute contraddizioni dei collaboratori di giustizia. Osservazioni scartate dai giudici, che sono arrivati al verdetto di condanna in un procedimento che ha valutato persino le analisi fisionomiche ed antropometriche dei due killer, effettuate attraverso il video della barbara esecuzione.

Il precedente: l’omicidio Ventura

Un’esecuzione, quella di Maccarrone, che riporta alla mente un altro “delitto d’onore” intriso di mafiosità, avvenuto a Biancavilla nel 1998. È quello di Carmelo Ventura, giovane promessa del pugilato siciliano, crivellato ai genitali e ucciso perché aveva osato mettere gli occhi su una ragazza, la stessa di cui si era invaghito Salvatore Maglia, esponente del clan locale.

Per lavare l’offesa, Maglia era arrivato a chiedere ed ottenere dal boss Placido Tomasello u canazzu il nulla osta a commettere, in sua presenza, l’eliminazione del rivale. Il cadavere martoriato del giovane era stato rinvenuto in zona Badalato, a Biancavilla. Anche in quel caso, grazie alle dichiarazioni di un testimone, i carabinieri avevano chiuso il cerchio sui responsabili. Poi, la sentenza di condanna: i due assassini scontano (anche loro) la pena dell’ergastolo.

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Blitz “Città blindata”, altre condanne: oltre 70 anni di carcere per 5 imputati

Sentenza di primo grado per fatti di mafia, droga e armi: focus delle indagini sugli Amoroso-Monforte

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Una serie di condanne per fatti di mafia: inflitti complessivi 72 anni di reclusione nei confronti di cinque imputati, sottoposti a processo con rito ordinario. Un procedimento scaturito dal blitz “Città blindata” condotto a Biancavilla da carabinieri e polizia nel febbraio del 2019. L’inchiesta della Dda, che aveva portato a 16 misure cautelari in carcere, ha consentito di accendere i riflettori sul gruppo riconducibile ai fratelli Vito e Pippo Amoroso e Alfio Monforte. Gran parte dei soggetti coinvolti ha scelto il rito abbreviato con condanne a 190 anni di carcere, nel 2020.

Adesso è arrivato il verdetto di primo grado della prima sezione penale del Tribunale di Catania per altri cinque imputati: Fabio Amoroso, Marco Battaglia, Giovanni Carciotto, Massimo Merlo e Placido Ricceri. Un ritardo dovuto anche allo stop imposto nel periodo Covid. Nella sentenza a firma della presidente Grazia Anna Caserta, le pene ammontano ad oltre 70 anni. I fatti contestati riguardano mafia, droga e armi.

Nello specifico, Fabio Amoroso (figlio di Pippo) è stato condannato a 15 anni e 6 mesi. Per Marco Battaglia, la pena è di 11 anni di reclusione e 50mila euro di multa. Condanna a 17 anni e 3 mesi di reclusione per Giovanni Carciotto (assolto, però, dall’accusa di associazione mafiosa). Per Massimo Merlo inflitti 13 anni e 3 mesi (ma si trova già all’ergastolo nella casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere per l’omicidio di Maurizio Maccarrone). Infine, a Placido Ricceri inflitti 15 anni e 3 mesi. Tutti condannati alle spese processuali. E tutti dovranno risarcire il Comune di Biancavilla (in misura da quantificare in sede civile), costituitosi parte civile per decisione del sindaco Antonio Bonanno.

Le indagini avevano preso spunto dalla due-giorni di sangue del gennaio 2014 con gli omicidi di Agatino Bivona e Nicola Gioco. Negli anni successivi, in quel clima criminale in ebollizione, l’attività investigativa aveva fatto emergere i passaggi, le incomprensioni, le tensioni interne all’organizzazione dei fratelli Amoroso e Monforte. Ma anche i tentativi di eliminare sia Vito (agguato sventato in extremis il giorno di San Placido nel 2016) sia Pippo (nel gennaio 2016 rimasto ferito dopo essere stato preso a fucilate in contrada “Erbe bianche”). In questo contesto, Pippo Amoroso acquistò un’auto blindata per la sua protezione. Da qui il nome dato all’operazione antimafia. Non sfuggì, però, alle manette dei carabinieri.

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Marito violento in manette, carabinieri di Biancavilla in azione fuori comune

Intervento dei militari a Motta Sant’Anastasia: una donna salvata dai maltrattamenti in famiglia

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I Carabinieri della Stazione di Biancavilla hanno arrestato un 44enne di Motta Sant’Anastasia, ritenuto responsabile di maltrattamenti nei confronti della moglie di 41 anni. L’intervento è scattato intorno all’una di notte, quando la figlia 16enne della coppia ha chiamato, in preda alla disperazione, il 112 per chiedere aiuto. Il padre stava picchiando violentemente la madre sotto i suoi occhi. La Centrale Operativa della Compagnia carabinieri di Paternò ha allertato la pattuglia più vicina, consentendo ai militari della Stazione di Biancavilla di raggiungere rapidamente l’abitazione a Motta Sant’Anastasia.

I carabinieri hanno trovato molti mobili e oggetti rotti mentre l’uomo, in evidente stato di agitazione, tentava di giustificare il proprio comportamento adducendo problemi familiari e difficoltà personali legate a pregresse denunce per maltrattamenti già sporte dalla moglie, da cui erano scaturiti provvedimenti giudiziari nei suoi riguardi.

Ai militari, però, non è passato inosservato l’atteggiamento della donna che, inizialmente silenziosa, presentava evidenti rossori al volto e una ferita sanguinante al braccio sinistro. Uno dei militari, perciò, ha preferito allontanarla dal marito per consentirle di raccontare l’accaduto.

Botte anche di fronte ai figli

La signora è riuscita infatti a riferire quanto era accaduto. Il marito, rientrato a casa nel pomeriggio dopo aver bevuto, come ormai succedeva spesso, avrebbe senza alcun motivo cominciato a distruggere i mobili della casa per poi colpire lei ripetutamente con schiaffi e pugni, rompendole anche il cellulare. La donna ha chiesto aiuto alla suocera, la quale effettivamente ha raggiunto l’abitazione dei coniugi ma, dopo una temporanea calma, intorno alle 22.00, il 44enne avrebbe ripreso a picchiare la moglie alla presenza dei loro quattro figli minorenni e anche di sua madre. Quest’ultima sarebbe stata a sua volta minacciata di morte dal figlio per aver tentato di difendere la nuora.

Raccolte, dunque, le dichiarazioni della vittima e della testimone, accertato lo stato dell’appartamento, che era semi distrutto, i Carabinieri hanno arrestato il marito violento. Arresto poi convalidato. L’uomo è stato portato nel carcere catanese di piazza Lanza.

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