Cultura
Biancavilla alle origini: sicuri che Callicari fosse una “bella contrada”?
Nuove ipotesi sul luogo di fondazione di Biancavilla, grazie allo studioso Jeremy McInerney

Rispetto al lessico comune, quello toponomastico presenta una stratificazione maggiore, in quanto gli strati più antichi, per quel che riguarda la Sicilia, possono risalire alle fasi precedenti la colonizzazione greca. L’indagine etimologica applicata alla toponomastica, tuttavia, diventa particolarmente complessa e piena di difficoltà quando si tratta di chiarire «il rapporto logico tra etimo e toponimo. La difficoltà […] si aggrava ulteriormente quando mancano le fonti storiche che attestino le varianti diacroniche dei toponimi da studiare», come scrive S.C. Trovato (Saggio di toponomastica nicosiana, 1997).
Da più di un secolo e mezzo, per esempio, tutti gli studiosi che hanno cercato di spiegare il toponimo Callicari hanno dovuto fare a meno di fonti lessicografiche e documentarie che permettessero i confronti con eventuali varianti, servendosi, invece, soltanto degli strumenti metodologici che il tempo e la preparazione personale ha messo di volta in volta a disposizione.
Oggi, siamo forse in grado di aggiungere un nuovo tassello alla conoscenza del toponimo e di offrire agli studiosi quella che crediamo sia una buona base di partenza per ulteriori e approfondite indagini. Ma andiamo con ordine.
I “Privilegi”, punto di partenza
Il toponimo Callicari appare la prima volta nel 1488 nei «Privilegi» per la fondazione della colonia albanese di Biancavilla. In questo documento, una vera e propria licentia populandi, con cui il feudatario, Gian Tommaso Moncada, concedeva ai nuovi venuti appezzamenti di terra in enfiteusi a canoni ridotti, riconoscendo loro una certa autonomia giudiziaria, si parla di «Greci abitatori infra lu territorio nuncupato di Callicari o Pojo Russo».
Callicari (casale di Callicari o, nelle forme latinizzate, casalis Callicaris e rure Callicaris), dunque, è un toponimo che precede quelli successivi di Casale dei Greci, Greci-Moncada e, infine, Biancavilla.
Non avendo a disposizione che queste sole fonti e quest’unica variante, gli studiosi hanno avanzato diverse proposte. La prima, in ordine cronologico (1850 circa), è quella del cosiddetto «Anonimo della Collegiata» (cfr. Alfio Lanaia, Il manoscritto di Michelangelo Greco, 2009), citata anche dal can. Placido Bucolo nella sua Storia di Biancavilla (1953), che scrive: «Chiamavasi il luogo di questa colonia prima de’ suoi abitatori ‘Callicari’, che altro non significa, se non Colles chari, o Collis, et Campus amoenitatis, sive deliciarum […]».
Si tratta di un etimo ibrido, metà latino, colles, metà greco, chari (= χάρις “grazia, bellezza”?), rigettato dal Bucolo, che propose, a sua volta, il composto greco καλὴ χώρα “bella contrada”, accettato, unanimemente, si può dire, dagli studiosi di Biancavilla.
Callicari: ma dove va l’accento?
Una proposta alternativa è quella di Girolamo Caracausi (Dizionario onomastico della Sicilia, 1993), secondo cui Callicari potrebbe derivare da Callegari, Calegari, cognome, dal nome di mestiere calegaro “chi fabbrica, ripara e vende calzature”, dal latino caligarius, da caliga “calzatura militare”, poi “scarpa”.
Bisogna aggiungere, inoltre, che un aspetto di cui finora non si è tenuto conto riguarda l’accento del toponimo che, non avendo un corrispettivo orale, non si sa dove collocarlo. Nonostante noi moderni pronunciamo Callicari come una parola sdrucciola, cioè con l’accento sulla terzultima sillaba, Callìcari, è possibile che la parola sia invece piana, con l’accento sulla penultima, Callicàri.
Ma, a parte questo, la mancanza finora di riscontri nelle fonti scritte greche rende difficile accettare le proposte precedenti. Ci viene però in aiuto, a questo punto, una scoperta fortunata quanto casuale che potrebbe gettare nuova luce su tutta la questione.
Callicari, Siracusa e il Mendolito
In uno studio su uno dei tanti aspetti del mondo antico (Pelagians and Leleges: Using the Past to Understand the Present) Jeremy McInerney, a proposito dei rapporti fra gli Spartani e le popolazioni indigene della Laconia, sottomesse ai nuovi dominatori, parla degli Iloti, citando una glossa (annotazione su una particolarità lessicale) dell’Etymologicum Gudianum, un’enciclopedia lessicale compilata nell’Italia meridionale nel X secolo d.C. e confluita nell’Etymologicum Magnum, un lessico redatto da un anonimo a Costantinopoli nel XII secolo. Ecco la glossa alla voce Εἵλωτες:
Εἵλωτεσ: οἱ Λακεδαίμονες καὶ οἱ δοῦλοι παρὰ Ἀθηναίοις. …ἰστέον δὲ ὅτι εἵλωτες λέγονται οἰ μιστῷ δουλεύοντες ἐλεύθεροι, οἱ αὐτοὶ δὲ παρὰ Ἀθηναίοις θῆτες λέγονται, παρὰ Ἀργείοις γυμνῆτες, παρὰ Θεσσαλοῖς πενέ(σ)ται, παρὰ Κρησὶ πελάται, παρὰ Σικορονίοις κορυφανίροι, παρὰ Συρακοσίοις καλλικάροι.
ILOTI: i Lacedemoni (= gli Spartani) e gli schiavi secondo gli Ateniesi. … Bisogna sapere che iloti sono detti gli uomini liberi che lavorano come schiavi a pagamento; questi sono chiamati Teti dagli Ateniesi, Gymneti dagli Argivi, Pene(s)ti dai Tessali, Pelati dai Cretesi, Coryphaniri dai Sicionî, Callicari dai Siracusani.
I Callicari, dunque, secondo l’Etymologicum Gudianum, erano i non Siracusani, quelli che lavoravano alle loro dipendenze. Ora, dato che il toponimo Callicari designava un «casale» o una contrada extra urbana del territorio di Adrano, è interessante sapere che Adranon, sub colonia di Siracusa, fu fondata da Dionigi di Siracusa nel 400/399 a.C. Per popolarla, è possibile che il tiranno siracusano abbia trasferito gli abitanti non greci della città del Mendolito e/o di altri abitanti della zona e li abbia sfruttati per fare lavori servili, come facevano gli Spartani con gli Iloti. Erano forse questi i Callicari?
Callicari “terra di schiavi”?
Lo studioso americano, Jeremy McInerney, ci informa, inoltre, che altre fonti registrano delle varianti di Callicari, che sono più diffuse e note agli studiosi. Si tratta degli stessi Callicari che appaiono in altre fonti come Καλλικύριοι (Callicurii), Κιλλύριοι (Cillyrii) e Κιλλικύριοι (Cillicyrii), tutti nomi con cui erano chiamati gli schiavi di Siracusa. A proposito dei Κιλλικύριοι, una glossa di Esichio (V-VI sec. d.C.) dice:
οἱ ἐπεισελθόντες γεωμόροι · δοῦλοι δὲ ἦσαν οὗτοι καὶ τοὺς κυρίους ἐξέβαλον
i nuovi arrivati sono proprietari della terra – gli schiavi erano loro e hanno cacciato i padroni.
Sulla base di queste nuove informazioni che abbiamo rinvenuto in alcune opere lessicografiche, possiamo dire che il nostro toponimo si può confrontare con un etnico, καλλικάροι, che indicava gli schiavi di Siracusa. Se il confronto è corretto, allora si può ipotizzare che anche Callicari in origine fosse un etnico e poi sia diventato un toponimo, una volta che il suo significato non fu più compreso, e quindi una espressione probabile come (terra) callicaris “terra di uno schiavo” o “terra di schiavi” si sia cristallizzata come toponimo.
Sul piano della forma, non ci possono essere dubbi sul fatto che il Callicari delle fonti tardo medievali corrisponda perfettamente con il καλλικάροι della lessicografia bizantina. Sul piano del significante, è inoltre notevole osservare come, a partire dalla variante che sembra più diffusa, κιλλικύριοι, si passi a καλλικύριοι e a καλλικάροι, fino a quella, foneticamente più distante κιλλύριοι.
Certo, gli archeologi e gli storici del mondo antico potranno confermare o meno e dire la loro sulla proposta di associare Callicari e καλλικάροι, ma mi sembra di grande interesse, citando in conclusione le parole di S.C. Trovato, che lo studio di un toponimo possa «colmare il vuoto documentario relativo alla storia del territorio oggetto dell’indagine».
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Cultura
I mortaretti innescano il conto alla rovescia: un mese e… sarà San Placido
Il 5 settembre, una data simbolo: Biancavilla verso la grande festa (religiosa e civile) per il suo patrono

Austu cucina e sittembiri minestra: un proverbio che in poche parole racconta la saggezza contadina di chi sapeva leggere il ritmo delle stagioni. Agosto offre il raccolto, settembre lo mette in tavola. È l’inizio autentico dell’anno contadino, civile e religioso. E qui, il tempo ha un ritmo preciso. A Biancavilla, questo passaggio è segnato ogni 5 settembre da un evento tanto simbolico quanto atteso: lo sparo dei mortaretti per annunciare che trasìu u misi a San Prazzitu. È il primo segnale che risveglia la memoria della comunità e dà il via a un conto alla rovescia carico di attesa e significato: tra un mese esatto sarà la festa di San Placido.
Preparativi antichi, attese senza tempo
Un tempo, questo giorno era l’avvio concreto dei preparativi, delle contrattazioni, l’inizio di una mobilitazione corale. Si montavano le logge di legno per ospitare i firanti della grande fiera, si stipulavano accordi con mastri pirotecnici e bande musicali, si allestivano le impalcature per le luminarie che avrebbero adornato le vie principali e il palco in piazza. Il campanile della matrice veniva costellato da migliaia di lucine elettriche che si sarebbero accese nei giorni di festa, rendendolo visibile anche nelle ore notturne, come una magia. A sostenere tutto questo non era l’amministrazione comunale, che si limitava a pochi contributi essenziali, ma la devozione popolare, organizzata dalla Confraternita del SS. Sacramento, i cui confrati passavano di casa in casa, nelle botteghe e nei circoli a raccogliere offerte. Era il popolo stesso a “costruire” la festa.
Nel frattempo, anche nelle case ci si preparava con la stessa intensità. Le donne cucivano abiti nuovi da sfoggiare nei giorni solenni, mentre gli uomini, aiutati da tutta la famiglia, mmazzavano ’u porcu allevato in casa per un anno intero cch’i favi e a canigghia. Niente era lasciato al caso. Anche il cibo, come i vestiti e i gesti, aveva un significato rituale: era memoria, sacrificio e condivisione.
I “doni” di settembre
Settembre portava altri doni. Nelle campagne si cutulavano le mandorle, un tempo abbondanti nel nostro territorio. Poi, in famiglia, si sgusciavano, si separavano dal mallo e si essiccavano al sole davanti agli usci e nei cortili. Infine si conservavano per durare tutto l’anno.
Nei vigneti a nord del paese, la vendemmia era una festa vera, fatta di fatica e gesti rituali. Famiglie intere si riunivano nei filari, assegnandosi ruoli e compiti precisi, tra animali da soma, cesti pieni d’uva e canti popolari. Era il trionfo della cooperazione e della fatica condivisa.
Oggi tutto è più veloce e last minute: con internet, tablet e smartphone gli eventi vengono pianificati e pubblicizzati via social e quel tempo lento e solenne sembra lontano. Eppure, settembre conserva ancora un’aura speciale: è il mese in cui si ritorna alla normalità dopo la sospensione estiva, si riprende la scuola, il lavoro, la vita sociale e la programmazione ecclesiale. A Biancavilla, invece, è ancora soprattutto il periodo prima di San Placido. Un mese che non guarda solo al futuro, ma affonda le sue radici in una memoria collettiva che ha plasmato l’identità del paese.
Una devozione con radici profonde
La figura di San Placido, monaco benedettino e martire, è da oltre quattro secoli il fulcro della devozione biancavillese. La tradizione vuole che, nel 1588, dopo il ritrovamento del corpo del santo a Messina, le sue reliquie venissero portate in processione nei principali centri della Sicilia. Il carro che trasportava le sacre spoglie aveva appena fatto tappa al monastero di Santa Maria di Licodia ed era diretto ad Adrano, senza fermarsi a Biancavilla, allora piccolo borgo di povera gente. Ma, giunto al confine tra i due territori, accadde qualcosa di prodigioso: il mulo si arrestò, impuntandosi, e nonostante ogni sforzo non volle più muoversi. Fu interpretato come un segno: il santo desiderava restare lì. Quel punto prese il nome di pidata di San Prazzitu, la pedata di San Placido.
È solo una leggenda – tramandata anche da Giuseppe Pitrè e di cui esistono più varianti – ma, come spesso accade, la forza del mito vale quasi quanto la verità storica. In essa si riconosce il bisogno della comunità di sentirsi scelta, benedetta, parte di una storia più grande. San Placido non è solo il protettore celeste, ma il simbolo di un’identità che ha saputo unire fede, lavoro, sacrificio e speranza. E anche se i tempi cambiano, settembre resta il mese in cui Biancavilla si raccoglie attorno alla sua memoria più viva. È il mese in cui il cielo si fa più terso, le prime piogge fecondano la terra e ogni cosa sembra ricominciare il suo ciclo. Ecco perché, ogni anno, quando i mortaretti del 5 settembre rompono il silenzio, non si annunciano solo dei preparativi: si riaccende il cuore pulsante dell’intera comunità.
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Cultura
Mulini ad acqua, Bonanno: «Sì al loro recupero con un progetto partecipato»
Ok del sindaco all’idea lanciata da “Biancavilla Oggi”: oltre 40 anni fa la denuncia di Antonio Zappalà

«Accolgo con favore l’iniziativa. Sono davvero felice di vedere l’attenzione che si focalizza sui mulini ad acqua di Biancavilla, veri e propri monumenti inconsapevoli da tutelare. La proposta di creare un “percorso dell’acqua” per recuperare e valorizzare questi ruderi è un’idea meravigliosa che potrebbe portare benefici culturali, turistici ed educativi alla nostra città».
Lo dichiara il sindaco Antonio Bonanno, in riferimento all’articolo a firma di Filadelfio Grasso, pubblicato su Biancavilla Oggi, sulla storia dei mulini ad acqua, per i quali si propone un’azione di recupero in modo da inserirli in un itinerario culturale, turistico ed educativo.
«È un’opportunità per riscoprire il nostro passato. Ricordo – aggiunge Bonanno – che già nella zona è in corso un intervento di rigenerazione urbana che sta interessando la Fontana Vecchia, l’ex Macello e l’installazione del basolato lavico sino alla via Inessa e all’incrocio con la via dei mulini ad acqua. Purtroppo, i fondi non sono stati sufficienti per comprendere anche la parte dei mulini, ma credo che questo sia un ottimo punto di partenza per proseguire il lavoro. Sarebbe interessante conciliare la proposta con il progetto di rigenerazione urbana di Antonio Presti, che attraverso un momento partecipativo nella nostra Biancavilla ha individuato la “Via dei Mulini” e la Fontana vecchia come “Belvedere dell’anima“».
Il sindaco: «Coinvolgerò gli studiosi locali»
Si tratta, dunque, di avviare un iter partecipato con contributi di idee e intercettare poi i necessari fondi. «Condivido pienamente l’idea di avviare una progettazione partecipata insieme a studiosi e storici della nostra città. Mi farò carico – specifica ancora il sindaco – di coinvolgere Filadelfio Grasso e Enzo Meccia di “SiciliAntica”, che hanno sempre mostrato attenzione e spirito propositivo. Sarò felice di coinvolgere anche chiunque altro vorrà dare un contributo. Spero che questa iniziativa possa essere un’opportunità per riscoprire il nostro passato e dare un senso nuovo a luoghi simbolo della nostra città».
Nel 1983 su “Callicari” l’appello di Antonio Zappalà
La tutela dei mulini ad acqua, ormai ridotti a ruderi fagocitati dallo sviluppo urbano, è un grido che già molti anni fa si è levato forte. Il primo a denunciare lo stato di abbandono e chiedere interventi di recupero è stato Antonio Zappalà. Lo studioso di storia e tradizioni locali, infatti, già nel 1983, all’epoca del ciclostile, ne scriveva su “Callicari”. Sul periodico parrocchiale della chiesa madre, a sua firma, erano state pubblicate diverse pagine nella rubrica “C’è da salvare” con un’uscita dedicata proprio ai mulini.
«Tentativi di recupero in tal senso – evidenziava Zappalà – sono stati fatti con ottimi risultati nel Nord Italia, dove strutture del genere sono state opportunamente ripristinate per servire veri e propri “Musei della civiltà contadina e rurale” o destinate a “Centri per attività culturali”».
«Mi domando a questo punto: perché non fare un serio tentativo anche qui a Biancavilla?», si chiedeva Zappalà. «Un immediato vantaggio – aggiungeva – potrebbe trarne il quartiere Sant’Orsola, che disporrebbe così di una struttura sociale per attività culturali e ricreative, nonché di un ampio spazio circostante da destinare a verde pubblico, di cui avrebbe bisogno».
Da qui l’appello di Antonio Zappalà rivolto al Comune: «Con la viva speranza di un pronto interessamento da parte della Giunta municipale, rivolgo un particolare invito all’assessore preposto ai Beni culturali, affinché intervenga presso le autorità competenti prima che il cemento e l’incuria del tempo soffochino e trasformino questa testimonianza del passato cara ai biancavillesi». Un appello che, a distanza di oltre 40 anni, rinnovato adesso da Biancavilla Oggi, attende ancora una risposta.
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