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Cultura

Un giro tra i quartieri della Biancavilla del Seicento: nuove scoperte storiche

ESCLUSIVO Dallo studio dei “riveli”, un inedito spaccato sull’assetto urbanistico e sui patrimoni familiari

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Nel 1953, il sacerdote Placido Bucolo diede alle stampe la sua Storia di Biancavilla. Il saggio, frutto di annose ricerche condotte a partire dal primo decennio del Novecento, si proponeva di offrire finalmente uno studio sistematico in relazione alle vicende della storia della cittadina etnea. D’altro canto, Adrano e Paternò – tra i centri abitati più vicini – erano in grado di fornire al canonico modelli a cui ispirarsi, in virtù delle ormai consolidate tradizioni di studi locali che trovavano compimento rispettivamente nei lavori di Salvatore Petronio Russo e di Gaetano Savasta.

Appena un decennio dopo la pubblicazione della Storia di Biancavilla, la comparsa del volume di Giuseppe Giarrizzo, Un comune rurale della Sicilia etnea (Biancavilla 1810-1860), rivelò, tuttavia, la debolezza della impalcatura sulla quale era stato costruito lo studio del sacerdote biancavillese. Di più, il lavoro del Giarrizzo sembrava indicare agli studiosi di storia locale il percorso da seguire. Percorso fondato innanzitutto sulla lettura critica delle fonti documentarie. La lezione metodologica dell’illustre docente di Storia moderna dell’Ateneo catanese sembrò rimanere, però, inascoltata per decenni.

L’importanza delle fonti documentarie: i “riveli”

Soltanto a partire dall’ultimo ventennio di questo secolo, pare che la fonte documentaria sia divenuta finalmente l’oggetto precipuo di indagine. Non è un caso che l’esame delle fonti documentarie, per lo più inedite, ha permesso di chiarire molteplici aspetti della storia di Biancavilla. Emblematica, in tal senso, rimane l’esperienza di conoscenza della vicenda del pittore Giuseppe Tamo, il cui passo successivo fu la valorizzazione delle sue opere.

Senza dubbio, la pubblicazione dell’Annuario Beni Culturali ha rappresentato un momento importante per lo studio degli eventi biancavillesi. All’interno di questa piattaforma hanno trovato posto, tra le altre, le ricerche di Alfio Lanaia, Alfio Grasso e Marcello Cantone. Tutti e tre, non a caso, hanno mosso le loro indagini a partire dall’analisi di documenti inediti.

Questa appare, dunque, la via da percorrere per riuscire a ricostruire anche gli eventi di un periodo scarsamente conosciuto, quale è quello compreso tra la fondazione della cittadina etnea (1488) e la fine del Seicento. Poche sono, infatti, le informazioni che possediamo su questo lasso di tempo, durante il quale, tuttavia, si è costituita una dinamica compagine sociale e si è sviluppato il primo assetto urbanistico dell’abitato etneo.

Lo studio dei riveli di beni ed anime di Biancavilla – documenti compilati dai capifamiglia, per l’appunto, sui beni e sui componenti del loro nucleo familiare – degli anni 1607, 1616 e 1624 ha permesso, in questo modo, non solo di acquisire informazioni del tutto inedite sulla struttura urbana della cittadina etnea. Ma anche e soprattutto di “entrare” all’interno delle case dei suoi abitanti per conoscere i componenti delle singole famiglie nonché il loro patrimonio.

Nuove genti concentrate attorno alla Matrice

Nel corso degli anni Novanta del Cinquecento, le famiglie stanziate a Biancavilla, allora terra compresa nella contea di Adernò, erano 133. Sulla base dei recenti studi condotti da Paolo Militello del Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università di Catania sui riveli di Biancavilla del 1593, solo 42 nuclei familiari allora erano con una certa probabilità di origine greco albanese. Tuttavia, di questi, soltanto 8 capifamiglia avevano fornito un’indicazione che richiamasse la loro provenienza dalla penisola balcanica. Pertanto, è possibile affermare che ad appena un secolo dalla fondazione del Casale dei greci, il modesto abitato etneo appariva popolato per due terzi da gente latina, giunta da vari centri della Sicilia orientale.

È opinione comune che i primi nuclei familiari stanziati presso la contrada di Callicari si fossero raggruppati attorno alla chiesa di santa Caterina, ribattezzata nel 1555 in santa Maria dell’Elemosina. Questa convinzione troverebbe ora supporto nei riveli qui esaminati per Biancavilla Oggi, che dimostrano come talune famiglie, quali Bisicchia, Crispi, Greco, Pillari e Zamanda, possedessero, ancora dopo cento anni, le loro abitazioni nello quartieri della matrice.

I documenti studiati forniscono preziose informazioni in merito alla strutturazione dell’abitato etneo. Nel corso dei primi anni del Seicento si espanse a vista d’occhio a seguito dell’arrivo di gente nuova. Per quanto riguarda tale flusso migratorio, la rilevanza del fenomeno era già stato messo in evidenza da chi scrive attraverso lo studio del «Libro antico dei matrimoni della parrocchia della terra di Biancavilla». Ma ora i nuovi documenti analizzati forniscono un ulteriore supporto, facendo emergere dei veri e propri modelli di stanziamento da parte dei nuovi venuti.

Immigrati poveri che stavano in “casalini”

Le famiglie che arrivavano a Biancavilla nei primi anni del Seicento avevano per lo più scarsissimi beni mobili e ovviamente nessun bene stabile. Giungevano, così, con una giumenta, un bue oppure qualche pecora e dimoravano in un casalino, cioè un’abitazione formata da una sola stanza, presa in affitto.

Attraverso modesti prestiti di danaro, i capifamiglia riuscivano a seminare frumento in piccole porzioni di terra, anch’esse prese in affitto dalle famiglie più abbienti. Il ricavato serviva anzitutto per sfamare le loro famiglie, che erano spesso numerose, ma anche per provare a migliorare la posizione sociale.

Non sempre le cose andavano bene. Lo dimostra il caso di tal Cuximano Pillari, chiamato in giudizio dai suoi creditori al tribunale di Adrano perché non avere onorato i suoi debiti. Cionondimeno, era possibile fare fortuna pure a Biancavilla. Lo dimostra un altro caso, questa volta quello della famiglia Piccione.

Quando giunse Tommaso da Palermo pressappoco nel 1607, questi non aveva nulla. Poteva contare solo sulle sue forze, su sua moglie Grazia Ricupero nonché sui suoi figli Pietro, Blasco, Antonino, Cristina e Sicilia. Nel corso del Seicento, suo nipote Francesco riuscì non solo ad accumulare una straordinaria quantità di ricchezze. Ma anche ad accasare i suoi figli con alcune delle più importanti famiglie di Agira, Adrano e Biancavilla.

La formazione dei primi “quartieri” a Biancavilla

I numerosi arrivi di gente nell’abitato etneo nel corso dei primi anni del Seicento permisero alle famiglie più abbienti, di costruire nuove case da affittare. Si ebbe, così, un’importante espansione urbanistica. Appare verosimile, come è già stato riferito, che il nucleo più antico dell’abitato si trovasse vicino alla chiesa di santa Maria dell’Elemosina. Quest’area è definita nei riveli del 1607, 1616 e 1624 in maniera indistinta. Era quartiero della matrice ecclesia, quartiero della maggior chiesa e quartiero di Santa Maria.

Immediatamente attiguo a questo, forse nell’area su cui sorge il teatro comunale, appare documentato il quartiero della funtana, indubbiamente così detto a motivo della presenza di una struttura in cui era possibile attingere l’acqua.

Nelle vicinanze del quartiero della matrice, i riveli del 1607 attestano inoltre i quartieri dilla piazza e di sancto Rocco. Quest’ultimo era l’antico appellativo che designava la chiesa di santa Maria del Rosario). Appare evidentemente che i termini utilizzati in questa fonte si riferiscano tutti a un’area oggi dominata dalla vasta mole della chiesa di santa Maria dell’Elemosina, la quale ridimensiona fortemente la presenza degli altri edifici sacri, come quella della chiesa di santa Maria del Rosario.

Quartieri “Nunciata” e “dilla cruchi”

È verosimile che l’utilizzo di questa toponomastica servisse allora per designare con maggiore precisione l’area in cui fosse ubicata l’abitazione del rivelante. Infatti, già a partire dal 1616, si iniziò a parlare soltanto dillo quartiere della matrice e dillo quartiere della nunciata.

La chiesa di santa Maria Annunziata, fondata da Dimitri Lu Jocu tra la fine del Cinquecento e gli inizi del Seicento, e a ogni modo prima del 1602, rappresentava l’altro polo attorno al quale si erano addensate le abitazioni della cittadina etnea. Dimitri possedeva diverse case nei pressi dell’Annunziata. Certamente egli era un personaggio di spicco nella Biancavilla di fine Cinquecento, tanto da avere ricoperto la carica di giurato della terra nel 1593. Oltre ai quartieri appena citati, le fonti documentarie analizzate in questa sede ne attestano altri come quello dilla cruchi , il quale corrisponde con il quartiere Casina. Lo sappiamo con una certa sicurezza da un documento della fine del Settecento, nel quale si attesta che in contrada Croce fu edificata la Casina del Principe di Paternò.

Ancora, dal rivelo del 1607 apprendiamo dell’esistenza di ulteriori quartieri come quello di Tempra (Fig. 8), di Mazzaglia, della rocca, delli Ficarazzi, dello caramidaro, di lu scarroni, di la via a pindino e soprattutto dello quartiero di santo Antonino . Quest’ultima informazione, in particolare, appare di estremo interesse perché attesta l’esistenza della chiesa di sant’Antonio da Padova addirittura agli inizi del Seicento. E ci rivela l’espansione dell’abitato verso sud-ovest già a partire dalla fine del Cinquecento.

Le abitazioni intervallate da “chiuse”

Va, tuttavia, sottolineato che la distribuzione delle abitazioni seguiva evidentemente uno schema a maglie larghe. Le abitazioni cioè apparivano intervallate da diverse aree incolte, ossia da chiuse, così definite in quanto i piccoli appezzamenti erano “chiusi” da muri a secco.

Per questo, spesso l’area prendeva la denominazione dall’abitazione più antica o più importante che esisteva nelle immediate vicinanze. Così sembra rilevarsi dal nome dei quartieri di Tempra e di Mazzaglia. Quest’ultimo, in particolare, si sa che era così appellato a causa dell’esistenza della casa solerata. Una casa, cioè, dotata di un primo piano, di una persona facoltosa, tal Sebastiano Mazzaglia.

Gli altri nomi dei quartieri rivelano la collocazione delle abitazioni nei pressi della rocca (della rocca) – forse sotto il quartiere di sant’Antonio – di alberi di fichi (delli Ficarazzi), di una strada in discesa (di la via a pindino), di un luogo ottenuto mediante terrazzamenti (di lu scarroni) nonché ancora di un’area destinata alla fabbricazione di tegole (dello caramidaro).

A partire dal 1616, oltre a questi quartieri appare documentato anche quello di santa Ursola, mentre dal 1624 quello di nostra Signoria dell’Itria. Si può così dimostrare, in questa sede, che non solo la chiesa di sant’Antonio da Padova debba riportarsi ai primi del Seicento. Ma anche quelle di sant’Orsola e di santa Maria dell’Odigitria, le cui ultime dovettero essere edificate intorno agli anni Venti dello stesso secolo, a dispetto delle informazioni restituite da Placido Bucolo. Del 1618 è, infatti, un contratto per la realizzazione del monumentale portale della chiesa di sant’Orsola.

Prospettive di ulteriori ricerche

Alla luce dei dati esposti qui su Biancavilla Oggi, appare evidente la rilevanza delle fonti documentarie prese in esame al fine di ricostruire la storia delle vicende dell’abitato etneo tra la fine del Cinquecento e gli inizi del Seicento.

È chiaro che ulteriori indagini condotte sui riveli, ma anche su altre fonti documentarie e primariamente sugli atti notarili e sulle carte conservate all’interno dell’Archivio storico di Adrano, aiuteranno di certo a gettare maggiore luce su un periodo, per troppo tempo e a torto, considerato imperscrutabile.

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Cultura

I mortaretti innescano il conto alla rovescia: un mese e… sarà San Placido

Il 5 settembre, una data simbolo: Biancavilla verso la grande festa (religiosa e civile) per il suo patrono

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Austu cucina e sittembiri minestra: un proverbio che in poche parole racconta la saggezza contadina di chi sapeva leggere il ritmo delle stagioni. Agosto offre il raccolto, settembre lo mette in tavola. È l’inizio autentico dell’anno contadino, civile e religioso. E qui, il tempo ha un ritmo preciso. A Biancavilla, questo passaggio è segnato ogni 5 settembre da un evento tanto simbolico quanto atteso: lo sparo dei mortaretti per annunciare che trasìu u misi a San Prazzitu. È il primo segnale che risveglia la memoria della comunità e dà il via a un conto alla rovescia carico di attesa e significato: tra un mese esatto sarà la festa di San Placido.

Preparativi antichi, attese senza tempo

Un tempo, questo giorno era l’avvio concreto dei preparativi, delle contrattazioni, l’inizio di una mobilitazione corale. Si montavano le logge di legno per ospitare i firanti della grande fiera, si stipulavano accordi con mastri pirotecnici e bande musicali, si allestivano le impalcature per le luminarie che avrebbero adornato le vie principali e il palco in piazza. Il campanile della matrice veniva costellato da migliaia di lucine elettriche che si sarebbero accese nei giorni di festa, rendendolo visibile anche nelle ore notturne, come una magia. A sostenere tutto questo non era l’amministrazione comunale, che si limitava a pochi contributi essenziali, ma la devozione popolare, organizzata dalla Confraternita del SS. Sacramento, i cui confrati passavano di casa in casa, nelle botteghe e nei circoli a raccogliere offerte. Era il popolo stesso a “costruire” la festa.

Nel frattempo, anche nelle case ci si preparava con la stessa intensità. Le donne cucivano abiti nuovi da sfoggiare nei giorni solenni, mentre gli uomini, aiutati da tutta la famiglia, mmazzavano ’u porcu allevato in casa per un anno intero cch’i favi e a canigghia. Niente era lasciato al caso. Anche il cibo, come i vestiti e i gesti, aveva un significato rituale: era memoria, sacrificio e condivisione.

I “doni” di settembre

Settembre portava altri doni. Nelle campagne si cutulavano le mandorle, un tempo abbondanti nel nostro territorio. Poi, in famiglia, si sgusciavano, si separavano dal mallo e si essiccavano al sole davanti agli usci e nei cortili. Infine si conservavano per durare tutto l’anno.

Nei vigneti a nord del paese, la vendemmia era una festa vera, fatta di fatica e gesti rituali. Famiglie intere si riunivano nei filari, assegnandosi ruoli e compiti precisi, tra animali da soma, cesti pieni d’uva e canti popolari. Era il trionfo della cooperazione e della fatica condivisa.

Oggi tutto è più veloce e last minute: con internet, tablet e smartphone gli eventi vengono pianificati e pubblicizzati via social e quel tempo lento e solenne sembra lontano. Eppure, settembre conserva ancora un’aura speciale: è il mese in cui si ritorna alla normalità dopo la sospensione estiva, si riprende la scuola, il lavoro, la vita sociale e la programmazione ecclesiale. A Biancavilla, invece, è ancora soprattutto il periodo prima di San Placido. Un mese che non guarda solo al futuro, ma affonda le sue radici in una memoria collettiva che ha plasmato l’identità del paese.

Una devozione con radici profonde

La figura di San Placido, monaco benedettino e martire, è da oltre quattro secoli il fulcro della devozione biancavillese. La tradizione vuole che, nel 1588, dopo il ritrovamento del corpo del santo a Messina, le sue reliquie venissero portate in processione nei principali centri della Sicilia. Il carro che trasportava le sacre spoglie aveva appena fatto tappa al monastero di Santa Maria di Licodia ed era diretto ad Adrano, senza fermarsi a Biancavilla, allora piccolo borgo di povera gente. Ma, giunto al confine tra i due territori, accadde qualcosa di prodigioso: il mulo si arrestò, impuntandosi, e nonostante ogni sforzo non volle più muoversi. Fu interpretato come un segno: il santo desiderava restare lì. Quel punto prese il nome di pidata di San Prazzitu, la pedata di San Placido.

È solo una leggenda – tramandata anche da Giuseppe Pitrè e di cui esistono più varianti – ma, come spesso accade, la forza del mito vale quasi quanto la verità storica. In essa si riconosce il bisogno della comunità di sentirsi scelta, benedetta, parte di una storia più grande. San Placido non è solo il protettore celeste, ma il simbolo di un’identità che ha saputo unire fede, lavoro, sacrificio e speranza. E anche se i tempi cambiano, settembre resta il mese in cui Biancavilla si raccoglie attorno alla sua memoria più viva. È il mese in cui il cielo si fa più terso, le prime piogge fecondano la terra e ogni cosa sembra ricominciare il suo ciclo. Ecco perché, ogni anno, quando i mortaretti del 5 settembre rompono il silenzio, non si annunciano solo dei preparativi: si riaccende il cuore pulsante dell’intera comunità.

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Cultura

Mulini ad acqua, Bonanno: «Sì al loro recupero con un progetto partecipato»

Ok del sindaco all’idea lanciata da “Biancavilla Oggi”: oltre 40 anni fa la denuncia di Antonio Zappalà

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© Archivio "Biancavilla Documenti"

«Accolgo con favore l’iniziativa. Sono davvero felice di vedere l’attenzione che si focalizza sui mulini ad acqua di Biancavilla, veri e propri monumenti inconsapevoli da tutelare. La proposta di creare un “percorso dell’acqua” per recuperare e valorizzare questi ruderi è un’idea meravigliosa che potrebbe portare benefici culturali, turistici ed educativi alla nostra città».

Lo dichiara il sindaco Antonio Bonanno, in riferimento all’articolo a firma di Filadelfio Grasso, pubblicato su Biancavilla Oggi, sulla storia dei mulini ad acqua, per i quali si propone un’azione di recupero in modo da inserirli in un itinerario culturale, turistico ed educativo.

«È un’opportunità per riscoprire il nostro passato. Ricordo – aggiunge Bonanno – che già nella zona è in corso un intervento di rigenerazione urbana che sta interessando la Fontana Vecchia, l’ex Macello e l’installazione del basolato lavico sino alla via Inessa e all’incrocio con la via dei mulini ad acqua. Purtroppo, i fondi non sono stati sufficienti per comprendere anche la parte dei mulini, ma credo che questo sia un ottimo punto di partenza per proseguire il lavoro. Sarebbe interessante conciliare la proposta con il progetto di rigenerazione urbana di Antonio Presti, che attraverso un momento partecipativo nella nostra Biancavilla ha individuato la “Via dei Mulini” e la Fontana vecchia come “Belvedere dell’anima“».

Il sindaco: «Coinvolgerò gli studiosi locali»

Si tratta, dunque, di avviare un iter partecipato con contributi di idee e intercettare poi i necessari fondi. «Condivido pienamente l’idea di avviare una progettazione partecipata insieme a studiosi e storici della nostra città. Mi farò carico – specifica ancora il sindaco – di coinvolgere Filadelfio Grasso e Enzo Meccia di “SiciliAntica”, che hanno sempre mostrato attenzione e spirito propositivo. Sarò felice di coinvolgere anche chiunque altro vorrà dare un contributo. Spero che questa iniziativa possa essere un’opportunità per riscoprire il nostro passato e dare un senso nuovo a luoghi simbolo della nostra città».

Nel 1983 su “Callicari” l’appello di Antonio Zappalà

La tutela dei mulini ad acqua, ormai ridotti a ruderi fagocitati dallo sviluppo urbano, è un grido che già molti anni fa si è levato forte. Il primo a denunciare lo stato di abbandono e chiedere interventi di recupero è stato Antonio Zappalà. Lo studioso di storia e tradizioni locali, infatti, già nel 1983, all’epoca del ciclostile, ne scriveva su “Callicari”. Sul periodico parrocchiale della chiesa madre, a sua firma, erano state pubblicate diverse pagine nella rubrica “C’è da salvare” con un’uscita dedicata proprio ai mulini.

«Tentativi di recupero in tal senso – evidenziava Zappalà – sono stati fatti con ottimi risultati nel Nord Italia, dove strutture del genere sono state opportunamente ripristinate per servire veri e propri “Musei della civiltà contadina e rurale” o destinate a “Centri per attività culturali”».

«Mi domando a questo punto: perché non fare un serio tentativo anche qui a Biancavilla?», si chiedeva Zappalà. «Un immediato vantaggio – aggiungeva – potrebbe trarne il quartiere Sant’Orsola, che disporrebbe così di una struttura sociale per attività culturali e ricreative, nonché di un ampio spazio circostante da destinare a verde pubblico, di cui avrebbe bisogno».

Da qui l’appello di Antonio Zappalà rivolto al Comune: «Con la viva speranza di un pronto interessamento da parte della Giunta municipale, rivolgo un particolare invito all’assessore preposto ai Beni culturali, affinché intervenga presso le autorità competenti prima che il cemento e l’incuria del tempo soffochino e trasformino questa testimonianza del passato cara ai biancavillesi». Un appello che, a distanza di oltre 40 anni, rinnovato adesso da Biancavilla Oggi, attende ancora una risposta.

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