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Cultura

W San Placido: il santo del popolo che almeno per un giorno ci rende comunità

Il Patrono di Biancavilla: di fronte a tradizioni ridotte a farsa, l’unica certezza resta quella del 5 ottobre

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© Foto Biancavilla Oggi

In un tempo di storiografie deboli, di identità incerte, di farse battezzate a tradizioni, il biancavillese ha in sé una sola certezza: il 5 ottobre viene san Placido. E non se ne fa, se il programma civile (dopo quello delle funzioni) quest’anno si intesta con un generico e mostoso “Ottobre in festa” (bisognerebbe capire cosa abbia fatto derogare all’attesa e gioiosa “Festa di San Placido” l’ibrida locuzione dall’indifferente gusto oltralpino, considerando che gli eventi in programma iniziano a fine settembre e non vanno oltre la prima settimana del mese successivo).

Ma San Placido, si sa, è festa di città. La festa. Di questa città. Il Benedettino non è santo di giaculatorie, litanie e piagnistei. È quasi impossibile, infatti, trovare un concittadino che conosca due righe, due, di una qualche preghiera dedicata al Patrono. Non a caso l’omonima novella di Federico De Roberto, ambientata a Biancavilla, ha avvio nel palazzo comunale e non in chiesa (si veda il volume pubblicato da Nero su Bianco Edizioni). Infatti, a differenza degli altri protettori, il martire è il cuore collettivo della società che si rigenera: il solo che per esistere non ha bisogno di ancoraggi alla fondazione.

Una festa di tutti, nessuno escluso

Santo ghibellino e socialista, di popolo: mette tutti d’accordo. Nessuno si sente escluso dalla festa. Tra un pasto luculliano e un vestito nuovo, una luminaria e uno sparo, una bancarella e un cantante, una crispella e un pezzo di torrone, in un giro di giostra, ce n’è per tutti. Si capisce che il culto di Placido risulta funzionale a un certo clericalismo, mentre non si dà per scontato il contrario.

Duole, però, che le tradizionali mongolfiere siano sparite al seguito della corsa dei cavalli, e la fiera del bestiame non ritorna a prendere posto, seppure rivista, nel calendario: quanto sarebbe atteso per i più piccoli, ad apertura di festività, un evento di promozione all’adozione degli animali e di conoscenza delle specie protette del Parco dell’Etna, quando le politiche degli ultimi governi si muovono a favore di educazione e terapia con gli animali.

Il Santo “civile” lontano da ori e pompe

È figura identitaria pop quella di Placido. Rifugge da ori e da pompe. Accondiscende alle messe, ma resta il Santo civile. E mantiene carattere del divino nella più occidentale delle tradizioni: quella di avere vizi umanissimi, ricorrere a una padella per difendere la sua salsiccia, facendo nero l’omologo adranita, e si tiene caro il territorio dal quale non accenna ad allontanarsi, pena mollare una gran pedata ai limitrofi trafugatori. Quanti nonni raccontano, ancora, queste vicende ai nostri occhi incantati di pargoli di sempre.

Santo del mito, più che del rito. Nel mutamento demografico e nell’ibridismo culturale, la sua festa – cerniera tra le stagioni e spartiacque dell’agenda nostrana – si perpetua e ci fa comunità. Per un giorno. E dai vecchi barbanera della Penisola ai calendari rurali riemerge Biancavilla nel novero delle feste nazionali, per il suo San Placido. Lo stesso al quale era intestata la prima banca popolare di microcredito: “Cassa rurale San Placido”.

Ma oggi, per una decina di minuti, per noi, i botti non saranno quelli dei notiziari atroci, della gragnuola che si abbatte nel medio oriente e nell’est dell’Europa. La disperazione anche per quest’anno è rimandata. E sarà bello trovarci ancora a mezzogiorno, senza classi, senza titoli, senza miseria all’uscita festosa del monaco rubicondo, con l’istinto condiviso di afferrare un rettangolino di carta colorata e leggerci: “W San Placido”!

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Ristrutturati i locali dell’ex macello: intitolati a cinque illustri biancavillesi

Si tratta di Placido Benina, Giosuè Chisari, Dino Sangiorgio, Giuseppe Tomasello, Salvatore Ventura

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Completati i lavori di ristrutturazione all’ex macello, in via Taranto, a Biancavilla. La struttura potrà essere destinata di nuovo ad attività sociali. L’amministrazione comunale ha deciso di ospitare gruppi giovanili ed associazioni, assegnando loro le relative stanze. Una di queste sarà affidata – come aveva annunciato il sindaco Antonio Bonanno – alla sezione “Nino Tropea” dell’Avis di Biancavilla. Le altre dovrebbero essere destinate a gruppi sulla base di un bando pubblico.

Le singole stanze sono state intitolate a cinque illustri biancavillesi, ormai scomparsi, che si sono distinti nell’ambito dell’arte, della musica, della poesia e del teatro.

Si tratta di Placido Benina (poeta dialettale), mons. Giosuè Chisari (maestro di musica, organista della Cattedrale di Catania, docente all’Istituto musicale “Vincenzo Bellini”, direttore del museo belliniano e direttore del complesso bandistico di Biancavilla), Dino Sangiorgio (maestro d’arte, restauratore e docente di educazione artistica), Giuseppe Tomasello (poeta dialettale e autore teatrale) e Salvatore Ventura (attore dialettale della compagnia teatrale biancavillese “Quattro soldi”).

Ad ogni stanza è associata una targa con i loro nomi. Un modo semplice e simbolico per tenere viva la memoria di quanti si sono distinti nei rispettivi ambiti.

L’inaugurazione dei locali è fissata per sabato 25 ottobre, alle ore 17. «Un nuovo spazio di incontro, cultura e crescita per la comunità»: così lo ha definito il Comune, chiamandolo “Casa della gioventù”.

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Cultura

Alfio Bellarmino, il Maestro di musica dimenticato: brillò in Italia e all’estero

Nato a Biancavilla nel 1891, fu un compositore poliedrico che spaziò dall’operetta alla musica sacra

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Il sipario di questo racconto si alza su un’epoca in cui la melodia e il bel canto erano il cuore pulsante dell’intrattenimento. Al centro del palco un nome che, ai suoi tempi, risuonava tra i teatri e le sale da concerto: Alfio Bellarmino. Oggi, purtroppo, il suo è un nome che non ci dice più nulla, quasi un’ombra persa nel grande archivio della storia musicale. Eppure, questo Maestro, nato a Biancavilla e formatosi a Catania, fu un compositore poliedrico che spaziò dalla leggerezza dell’operetta alla solennità della musica sacra. Su Biancavilla Oggi ne tracciamo il profilo.

Una carriera tra acclamazioni

La sua carriera artistica prese il volo nel mondo dell’Operetta, un genere in cui la sua maestria lo elevò rapidamente tra le figure più richieste dell’epoca. Molto apprezzato tra la Lombardia e la lontana Jugoslavia, il suo primo trionfo arrivò nel 1918 con l’operetta in tre atti, La pianella. Fu un successo clamoroso che ebbe luogo nel piccolo Teatro Comunale di Albonese, in provincia di Pavia, dove l’opera fu replicata per ben dieci serate consecutive.

Albonese divenne il suo trampolino di lancio: qui replicò l’identico successo con la successiva Cinesina, sempre in tre atti. Questi successi diedero a Bellarmino la spinta per un’importante produzione musicale che risultò determinante per il proprio futuro. Nacquero così, quasi di getto, altre operette che lo portarono in giro per l’Italia e oltre: Suzy rappresentata a Trieste, Renato da Prignol nell’allora Pisino (Croazia), Ventaglio rosa ancora ad Albonese e l’atto unico Cip cip a Trieste.

Ma la sua vena artistica lo spinse oltre al teatro leggero. Presto, nel cammino verso la maturità, emerse in lui la necessità di esplorare orizzonti più vasti, quelli dell’Opera e della Musica Sacra. La sua attività si fece senza soste, spaziando dalla musica da camera, alla romanza, dai quartetti per archi alle composizioni per Banda.

In Istria la sua prima opera lirica

Il 1924 segnò una svolta. A Parenzo, in Istria, andò in scena Eufrasia, la sua prima opera lirica, subito acclamata dalla critica come uno dei suoi capolavori. Questo fu l’inizio di una serie di composizioni di alto profilo, tra cui l’opera La notte di Suleica e soprattutto il poema sinfonico Cristhus (1926), che inaugurò la sua lunga e sentita produzione di opere dedicate alle Sante Agata, Venera, Lucia e Cecilia.

Quest’ultima, Cecilia, fu rappresentata per la prima volta (1946) a Catania presso il Teatro Sangiorgi, successivamente (1948) al Teatro Massimo Bellini. Mentre Lucia, la cui prima esecuzione avvenne presso la monumentale chiesa di San Nicolò l’Arena (1926), fu riproposta dopo molti anni presso la chiesa dei Minoriti (1960) ed eseguita dall’Orchestra del Teatro Massimo Bellini, diretta per l’occasione dallo stesso Bellarmino.

Direttore del Corpo Musicale Civico di Catania

Nel 1951 viene nominato, dall’amministrazione comunale catanese, direttore del Corpo Musicale Civico di Catania. Il Maestro di origini biancavillesi raccoglie, così, un’importante eredità lasciata dagli illustri predecessori: Domenico Barreca, Giovanni Pennacchio e Antonio D’Elia, oggi ricordati tra le più autorevoli personalità che fanno parte della storia della banda musicale in Italia.

Alla direzione del Corpo Musicale Civico catanese, Bellarmino ebbe l’opportunità di eseguire due sinfonie da lui stesso composte: Il Trionfo di Cesare e la Sinfonia dell’Ottocento, eseguite al Giardino Bellini di Catania. Nonostante l’impegno profuso, quella del Maestro fu un’esperienza breve e segnata, pare, da incomprensioni che lo costrinsero a lasciare dopo soli tre anni.

Per Bellarmino, non fu l’unica esperienza alla direzione di un complesso bandistico: diresse, per un periodo imprecisato di tempo, anche la Banda Musicale di Trecastagni, città in cui egli stesso aveva residenza.

«Quell’aria bonariamente austera…»

Nell’ultima parte della sua vita, pur rifiutando l’ambita direzione della Filarmonica “La Valletta” di Malta, Bellarmino scelse di dedicarsi interamente alla didattica, conseguendo la cattedra di musica e canto. Fu nell’insegnamento che spese gli ultimi anni di vita, fino alla sua scomparsa che avvenne nel maggio del 1969.

Quando fu commemorato presso l’Istituto “Turrisi Colonna”, dove aveva insegnato per anni, i suoi allievi ne ricordarono non solo l’indubbia preparazione, ma anche l’innata signorilità: «Quell’aria bonariamente austera da cui trasparivano i tratti nobiliari dell’antico lignaggio». Le sue spoglie mortali riposano presso il cimitero comunale di Trecastagni. La lapide recita così: “Grande Ufficiale Conte M° Alfio Bellarmino – 3 febbraio 1891 – 28 maggio 1969”. Alfio Bellarmino non fu solo un compositore; fu un ponte tra generi: il brillante e il sacro, che hanno caratterizzato una ricca produzione artistica che oggi attende solo di essere riscoperta.

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