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Cultura

Giuseppe Giarrizzo e Biancavilla, una ricerca diventata caso nazionale

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Nella vicenda intellettuale di Giuseppe Giarrizzo, tra i maestri più influenti della storiografia moderna in Italia, scomparso all’età di 88 anni, un testo segna una rottura d’indirizzo e una svolta di metodo negli studi della municipalistica nazionale. “Un comune rurale della Sicilia etnea. Biancavilla 1810 – 1860” non è soltanto la monografia che permise al giovane professore di vincere il concorso a ordinario, bensì lo studio che fece di Biancavilla un caso nazionale ed emblematico nell’orizzonte di quel “risorgimento tradito” che ancora oggi fotografa l’epopea unitaria del Sud.

Era, infatti, il 1961 quando il poco più che trentenne storico delle idee – appena rientrato in Sicilia da un periodo di studi oltre lo Stretto – si vide affidato da Carmelina Naselli, con il compiacimento di Salvatore Santangelo, un gruppo di carte ottocentesche donate alla Società di Storia Patria per la Sicilia Orientale da un rampollo della famiglia Biondi, originaria dell’entroterra etneo, che tanta influenza aveva avuto nei moti risorgimentali isolani. L’invito per un convegno che l’Istituto Gramsci di Palermo andava organizzando per il centenario dell’Unità, spinse Giarrizzo a proporre quello di Biancavilla come caso di studio, il cui ingresso nella storia nazionale rimaneva contraddistinto da uno dei più cruenti eccidi preunitari.

L’emblematicità della vicenda, dunque, offriva la possibilità di ben decodificare i successivi (e più noti) fatti di Bronte, sui quali la lettura “impressionista” di Benedetto Radice continuava a tenere banco.

Con la mediazione del suo collaboratore Torrisi, ottimo trade union con i politici locali, Giarrizzo ebbe il beneplacito del sindaco Dino Laudani ad accedere all’archivio che, sorprendentemente, trovò ben ordinato e ricchissimo di informazioni, in una dimenticata stanza del palazzo comunale che conservava ancora le annone del periodo bellico. Fu questa la vera scoperta che gli permise di centrare l’obiettivo della stesura di un corposo studio non sugli eventi (emblematico il dato che il volume non indaghi minuziosamente le dinamiche del processo), bensì sui fattori che ebbero a generare l’epilogo di sangue. Ad arricchire lo studio, pubblicato a Catania due anni dopo, una corposa appendice sul notabilato locale (non presente in una prima stampa).

L’originalità e il valore di quell’historia minima, tuttavia, non ebbe un coro unanime. Non a caso Franco Venturi si trovò sul fronte opposto di Rosario Romeo che, entusiasta, ammise Giarrizzo al massimo grado tra gli accademici catanesi.

Leonardo Sciascia su “La Stampa” recensì l’opera, che fece pure definire l’autore un Almerigo Castro siciliano. Ma fu durante una passeggiata sull’Etna con l’editore Laterza e Santo Mazzarino che Giarrizzo ebbe la proposta, che mai vide la luce, di far apparire un’edizione riveduta nel catalogo della casa editrice di Croce.

Ma il legame di Giarrizzo con Biancavilla, nonostante i rimbrotti che gli vennero mossi durante la presentazione del libro nel locale Circolo Castriota (si era attirato il risentimento di taluno per aver presentato come non proprio riguardevole la vicenda di biografica di qualche avo), proseguì con la direzione di tesi sui beni ecclesiastici del comune pedemontano e con il desiderio, caldeggiato fino all’ultimo periodo, che si potessero studiare i censi nobiliari ottocenteschi, nell’ottica di un’indagine probabilmente destinata a giungere all’avvento dei fasci siciliani.

All’interpretazione data di quel cinquantennio rimase legato, nonostante – con estrema lucidità – poco più di un anno fa avesse ammesso che oggi il mutato orizzonte nell’indirizzo di studi gli avrebbe fatto integrare riferimenti iconografici e nuovi materiali. Un esaustivo approccio, lasciò anche intendere, non può tenere in conto che la questione delle terre demaniali doveva prendere in esame il grosso limite costituito dagli appezzamenti agricoli indivisi con i comuni vicini e con gli oneri economici della bonifica sostenuti dagli usurpanti. Se oggi la vicenda di Angelo Biondi e Placido Milone continua a calamitare l’attenzione degli storici del Risorgimento il merito è di Giarrizzo.

Uno studio del quale si disse sempre “affezionato”, sorto da una coincidenza, che ha fatto dell’indagine su un comune di provincia una vicenda capace di imprimere un rigoroso modello di lettura, un chiaro e saldo indirizzo storiografico.

L’ultimo intervento pubblico a Biancavilla il 27 gennaio 2012, quando presentò l’Antologia della memoria che contiene un suo lungo scritto sulle più note vicenda degli etnei cattolici internati nei lager nazisti, aprendo all’“imperativo territoriale” o “rete”. Rimane, infine, l’amarezza di una (doverosa) cittadinanza onoraria che non gli è mai giunta, nonostante l’intervento apparso su Biancavilla Oggi (nell’agosto 2014) ne avesse fatto esplicito cenno.

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Cultura

Ristrutturati i locali dell’ex macello: intitolati a cinque illustri biancavillesi

Si tratta di Placido Benina, Giosuè Chisari, Dino Sangiorgio, Giuseppe Tomasello, Salvatore Ventura

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© Foto Biancavilla Oggi

Completati i lavori di ristrutturazione all’ex macello, in via Taranto, a Biancavilla. La struttura potrà essere destinata di nuovo ad attività sociali. L’amministrazione comunale ha deciso di ospitare gruppi giovanili ed associazioni, assegnando loro le relative stanze. Una di queste sarà affidata – come aveva annunciato il sindaco Antonio Bonanno – alla sezione “Nino Tropea” dell’Avis di Biancavilla. Le altre dovrebbero essere destinate a gruppi sulla base di un bando pubblico.

Le singole stanze sono state intitolate a cinque illustri biancavillesi, ormai scomparsi, che si sono distinti nell’ambito dell’arte, della musica, della poesia e del teatro.

Si tratta di Placido Benina (poeta dialettale), mons. Giosuè Chisari (maestro di musica, organista della Cattedrale di Catania, docente all’Istituto musicale “Vincenzo Bellini”, direttore del museo belliniano e direttore del complesso bandistico di Biancavilla), Dino Sangiorgio (maestro d’arte, restauratore e docente di educazione artistica), Giuseppe Tomasello (poeta dialettale e autore teatrale) e Salvatore Ventura (attore dialettale della compagnia teatrale biancavillese “Quattro soldi”).

Ad ogni stanza è associata una targa con i loro nomi. Un modo semplice e simbolico per tenere viva la memoria di quanti si sono distinti nei rispettivi ambiti.

L’inaugurazione dei locali è fissata per sabato 25 ottobre, alle ore 17. «Un nuovo spazio di incontro, cultura e crescita per la comunità»: così lo ha definito il Comune, chiamandolo “Casa della gioventù”.

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Cultura

Alfio Bellarmino, il Maestro di musica dimenticato: brillò in Italia e all’estero

Nato a Biancavilla nel 1891, fu un compositore poliedrico che spaziò dall’operetta alla musica sacra

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Il sipario di questo racconto si alza su un’epoca in cui la melodia e il bel canto erano il cuore pulsante dell’intrattenimento. Al centro del palco un nome che, ai suoi tempi, risuonava tra i teatri e le sale da concerto: Alfio Bellarmino. Oggi, purtroppo, il suo è un nome che non ci dice più nulla, quasi un’ombra persa nel grande archivio della storia musicale. Eppure, questo Maestro, nato a Biancavilla e formatosi a Catania, fu un compositore poliedrico che spaziò dalla leggerezza dell’operetta alla solennità della musica sacra. Su Biancavilla Oggi ne tracciamo il profilo.

Una carriera tra acclamazioni

La sua carriera artistica prese il volo nel mondo dell’Operetta, un genere in cui la sua maestria lo elevò rapidamente tra le figure più richieste dell’epoca. Molto apprezzato tra la Lombardia e la lontana Jugoslavia, il suo primo trionfo arrivò nel 1918 con l’operetta in tre atti, La pianella. Fu un successo clamoroso che ebbe luogo nel piccolo Teatro Comunale di Albonese, in provincia di Pavia, dove l’opera fu replicata per ben dieci serate consecutive.

Albonese divenne il suo trampolino di lancio: qui replicò l’identico successo con la successiva Cinesina, sempre in tre atti. Questi successi diedero a Bellarmino la spinta per un’importante produzione musicale che risultò determinante per il proprio futuro. Nacquero così, quasi di getto, altre operette che lo portarono in giro per l’Italia e oltre: Suzy rappresentata a Trieste, Renato da Prignol nell’allora Pisino (Croazia), Ventaglio rosa ancora ad Albonese e l’atto unico Cip cip a Trieste.

Ma la sua vena artistica lo spinse oltre al teatro leggero. Presto, nel cammino verso la maturità, emerse in lui la necessità di esplorare orizzonti più vasti, quelli dell’Opera e della Musica Sacra. La sua attività si fece senza soste, spaziando dalla musica da camera, alla romanza, dai quartetti per archi alle composizioni per Banda.

In Istria la sua prima opera lirica

Il 1924 segnò una svolta. A Parenzo, in Istria, andò in scena Eufrasia, la sua prima opera lirica, subito acclamata dalla critica come uno dei suoi capolavori. Questo fu l’inizio di una serie di composizioni di alto profilo, tra cui l’opera La notte di Suleica e soprattutto il poema sinfonico Cristhus (1926), che inaugurò la sua lunga e sentita produzione di opere dedicate alle Sante Agata, Venera, Lucia e Cecilia.

Quest’ultima, Cecilia, fu rappresentata per la prima volta (1946) a Catania presso il Teatro Sangiorgi, successivamente (1948) al Teatro Massimo Bellini. Mentre Lucia, la cui prima esecuzione avvenne presso la monumentale chiesa di San Nicolò l’Arena (1926), fu riproposta dopo molti anni presso la chiesa dei Minoriti (1960) ed eseguita dall’Orchestra del Teatro Massimo Bellini, diretta per l’occasione dallo stesso Bellarmino.

Direttore del Corpo Musicale Civico di Catania

Nel 1951 viene nominato, dall’amministrazione comunale catanese, direttore del Corpo Musicale Civico di Catania. Il Maestro di origini biancavillesi raccoglie, così, un’importante eredità lasciata dagli illustri predecessori: Domenico Barreca, Giovanni Pennacchio e Antonio D’Elia, oggi ricordati tra le più autorevoli personalità che fanno parte della storia della banda musicale in Italia.

Alla direzione del Corpo Musicale Civico catanese, Bellarmino ebbe l’opportunità di eseguire due sinfonie da lui stesso composte: Il Trionfo di Cesare e la Sinfonia dell’Ottocento, eseguite al Giardino Bellini di Catania. Nonostante l’impegno profuso, quella del Maestro fu un’esperienza breve e segnata, pare, da incomprensioni che lo costrinsero a lasciare dopo soli tre anni.

Per Bellarmino, non fu l’unica esperienza alla direzione di un complesso bandistico: diresse, per un periodo imprecisato di tempo, anche la Banda Musicale di Trecastagni, città in cui egli stesso aveva residenza.

«Quell’aria bonariamente austera…»

Nell’ultima parte della sua vita, pur rifiutando l’ambita direzione della Filarmonica “La Valletta” di Malta, Bellarmino scelse di dedicarsi interamente alla didattica, conseguendo la cattedra di musica e canto. Fu nell’insegnamento che spese gli ultimi anni di vita, fino alla sua scomparsa che avvenne nel maggio del 1969.

Quando fu commemorato presso l’Istituto “Turrisi Colonna”, dove aveva insegnato per anni, i suoi allievi ne ricordarono non solo l’indubbia preparazione, ma anche l’innata signorilità: «Quell’aria bonariamente austera da cui trasparivano i tratti nobiliari dell’antico lignaggio». Le sue spoglie mortali riposano presso il cimitero comunale di Trecastagni. La lapide recita così: “Grande Ufficiale Conte M° Alfio Bellarmino – 3 febbraio 1891 – 28 maggio 1969”. Alfio Bellarmino non fu solo un compositore; fu un ponte tra generi: il brillante e il sacro, che hanno caratterizzato una ricca produzione artistica che oggi attende solo di essere riscoperta.

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