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A Biancavilla è ancora Natale? Dai ricordi, una riflessione sul presente

LA LETTURA. «Nella povertà generale degli anni ’60, un po’ tutti in paese eravamo più felici…».

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Sono qui da un quarto d’ora, sostato alla meno peggio presso il marciapiedi di piazza Roma, e aspetto in macchina un mio caro amico che, come di suo solito, tarda ad arrivare. Mi ha detto al cellulare di attenderlo, di avere un po’ di pazienza, che è importante che mi veda. Deve parlarmi – mi dice con tono preoccupato – di una sua faccenda di lavoro piuttosto seria e, prima di prendere per sé una decisione risolutiva, vuole sentirsi tutelato dal mio parere. Per dovere di lealtà, gli ho detto di sì senza esitare, ma comincio già a pentirmi d’averlo accontentato.

Sono stufo. Sono le 4 del pomeriggio e non ho ancora combinato nulla di buono. Fra poco, quando verrà, con una piccola alzata di spalle si scuserà, aggiungerà al suo saluto il suo solito sorriso spigliato dicendomi che ha perso molto tempo per strada nel fare la fila per colpa dei troppi automobilisti maleducati che a Biancavilla bloccano il traffico del corso principale per intrattenersi, comodamente seduti a bordo, a chiacchierare con qualcuno di passaggio oppure per cercarsi, lecitamente o no, un ritaglio di spazio per parcheggiare il più vicino possibile ai bar del centro o al circolo che amano frequentare. Quel che più m’infastidisce in tutto questo è che, mio malgrado, dovrò dargli perfino ragione.

Per essere la settimana di Natale, questo pomeriggio è davvero uggioso, simile al grigiore del cielo che da stamani incombe con la sua cappa asfissiante sull’apatica noia di una comunità di persone, qual è la nostra, contraddistinta in buona parte da una condotta che, nel suo essere riprovevole, è immutabile, sempre uguale. Intendo riferirmi, nello specifico, ai quei tanti, tanti concittadini nullafacenti che, in qualunque frazione della giornata, mi si parano con sguardo anonimo sotto gli occhi ogni volta che passo per via Vittorio Emanuele: un esercito di ancor giovani pensionati e bighelloni senza mestiere – i viziusi ’i chiazza – che stazionano pigramente con qualche sbadiglio davanti ad una consumazione o, con più frequenza, all’ingresso della sucietà cui sono iscritti, aspettando, tra una ciancia ridanciana e un isterismo, che si faccia l’ora di pranzo o della cena per ritornare a casa.

È la solita parata degli ignavi nostrani che ormai da anni si ripete ogni giorno sin dalle 8 del mattino fino a tarda sera, a beffa di chi, vittima involontaria del precariato, corre sovrappensiero dietro ai semafori per guadagnarsi come può la sua razione di pane quotidiano.

D’un tratto, dal campanile della Matrice gli altoparlanti diffondono le melodie tradizionali della novena, logore come il disco su cui sono state incise, che si ostinano ad invitare in chiesa molti di più di quei ligi fedeli che solitamente presenziano ai riti decembrini. La piazza affoga nel silenzio il suo trantran e reagisce a quei suoni con la sua monotona indifferenza, distratta dai rumori e dalle chiacchiere in corso. Mi sembra, quasi, di cogliere nell’aria perfino una sensazione di tedio cui, per convenienza, nessuno osa ribellarsi. Tra uno sbadiglio e l’altro, intanto non vedo nessuno di quella gente alzarsi dalla sedia per avviarsi a quella scalinata antistante che potrebbe dare un senso a questo pomeriggio, però mi incuriosisce, in lontananza, la vista di alcune vecchine dall’aria dimessa e riservata che svoltano da via Verdi – ‘a strata do tiatru – per risparmiarsi la fatica di salire in chiesa sui gradini del sagrato, ultimamente contaminati da rifiuti d’ogni genere, davvero pericolosi per la loro untuosa scivolosità.

Finalmente! Il mio amico è arrivato. Piomba dentro la mia macchina scusandosi nel modo che avevo previsto. Mi dice che ha dovuto lasciare la sua in una traversa dei paraggi e, preso dalla foga, aggiunge trafelato, quasi sfiatato, se posso accompagnarlo perché non ha tempo, che non si è ancora liberato dalle sue incombenze e che dobbiamo sloggiare subito: deve andare d’urgenza al supermercato di Spartiviali perché ha delle cose da prendere per la cena dei suoi bambini, sennò sua moglie poi… chi la sente? Mi parlerà per strada dei suoi problemi…

Siamo arrivati. Il mio amico interrompe bruscamente il discorso appena iniziato e mi prega di attenderlo ancora per pochi minuti, poi, promette, mi dedicherà tutto il tempo che vorrò per chiarirmi i termini nodali dei suoi dilemmi. Sono costretto ad annuire, sia per educazione sia perché non saprei fare diversamente. Provo ad accendere l’autoradio nel tentativo di distrarmi, ma la spengo quasi subito. Le voci, i ritmi e i versacci volgari che mi giungono alle orecchie fanno a pugni con la mia formazione culturale: il rap, proprio, non fa per me. Assorto nella mia rassegnata solitudine, riprendo ad osservare, come da sempre mi piace, i comportamenti della gente. È bellissimo cogliere l’impatto dei sentimenti che la agitano, misurarne la fretta o la pigrizia dei passi, calarsi nel malumore occasionale di qualcuno per essersi scordato di comprare quel tal prodotto così necessario per far bella figura con gli ospiti la sera del cenone, ed anche quantificare ironicamente la soddisfazione di chi, invece, è riuscito a fare tutto in tempo ed evitare così il fastidio di rivestirsi e uscire di nuovo.

Da diversi anni, durante le mie soste forzate godo, quando leggo negli occhi del mio prossimo, se riesco ad approntare alla mia conoscenza dei ritratti estemporanei di varia umanità. Ma oggi questo gioco si fa triste. I cofani posteriori spalancati delle macchine in sosta, tra cui mi trovo intrappolato, straripano a iosa di panettoni e cibarie di ogni genere, di accessori e cianfrusaglie non sempre utili – comunque tutti di stampo natalizio – spesso ai limiti del buon gusto. Qualcuno, costringendo con voce grossa i bambini a tacere, ricorda alla moglie di andare lì vicino, a casa di quel tizio, a ‘ccattari ‘n pocu di calia e simenza, di chidda di casa, e macari tanticchia ‘i nucidda miricana ‘mmiscata ccu’ ‘na junta di frastuca, per ingannare il tempo, durante la notte di Natale, giocando a carte.

Anche dalla chiesa del SS. Salvatore altre nenie natalizie, diffuse confusamente insieme ad un frenetico quanto illogico scampanio, insistono nel loro invito a partecipare ai riti che vi si celebreranno di lì a poco, e una vocina femminile, che tradisce la ancor giovane età di una pia attivista, fa giungere pure una preghiera dal microfono dell’altare affinché il Messia torni effettivamente a rinascere anche quest’anno nel cuore di ciascuno.

Mi chiedo se, in tutto quel frastuono, quei devoti rintocchi faranno mai breccia in quel popolo di edonisti, distratti dagli acquisti dell’ultim’ora. Io li vedo lì, sbuffanti, intenti a spingere pesanti carrelli strapieni di tutto.

Per la prima volta – oh, tristezza! – l’eventualità che possa essere vero ciò che temo mi annichilisce. Mi sento più che mai tradito dal mio tempo, asfissiato dalla muta indifferenza che respiro nell’aria! Ma la mia mente, intanto, ancor vinta dai fugaci balenii dei ricordi giovanili, si lascia volentieri sollecitare da immagini e suoni antichi, eredità di un’età migliore quando, ad esempio, nella povertà generale degli anni ’60, un po’ tutti in paese, certamente meno distratti dalle attuali chimeriche contingenze, eravamo più felici di quanto oggi crediamo di essere perché idealmente più vicini a quella mangiatoia di Betlemme che si fece, solo per amore, culla della nostra Salvezza. Allora, mi ricordo, i panettoni e i bagordi notturni non erano necessari per celebrare il Natale e Gesù non si offendeva mica se nell’angolo abituale della nostra camera più grande mancava l’albero natalizio, plastificato, addobbato con tanto liso ciarpame luccicante, riesumato per l’occasione dalla polvere delle cantine per riparare sotto le sue fronde gli immancabili regali: quelli appena comprati e quelli, tirati fuori di proposito, da riciclare perché non graditi!

A rifletterci sopra, mi sento indotto a riconoscere quanto più vicini a Dio fossero, tra i nostri antenati, i più poveri fra i poveri di Biancavilla quando, non avendo potuto raggranellare cibo a sufficienza, si sapevano accontentare di qualche panetto di ficudinnia sicca ‘sciucata o’ suli no’ musciaru, eletta per l’occasione a dolce di Natale. Già, ’a ficudinnia tagghiata a quarti, la stessa di quella che i braccianti nullatenenti si portavano quotidianamente in campagna per pranzo insieme alle fave abbrustolite, la stessa che la pietosa vicina di una inope coppia di sposi di via Cesare de’ Masi distribuì per loro augurio come dolce di nozze!

Mi accorgo che mi sto lasciando prendere la mano dalle nostalgie e non riesco più a separare la noia che pervade quest’ora dai miei ricordi infantili. In essi la mente si ostina a rivedere con la stessa lucidità di un sogno recente gli onnipresenti tareddi che erano, fino a pochi anni fa, parte integrante della facciata di ogni casa e testimonianza orgogliosa della fede professata dalle famiglie che ci abitavano. A Natale le nostre donne, col concorso dei figli e dei mariti, li addobbavano secondo la disponibilità domestica, ora cchi’ toppula ‘i lippu, il muschio staccato da qualche vecchia parete scrostata, ora con ramoscelli di edera divelti da chissà quale muro in crudo, ed anche con arance, pungitopo e tanti, tanti batuffoli di cotone per ricordare ai bambini, col loro niveo biancore, il gelo in cui nacque Gesù. Ed erano le stesse virtuose spose biancavillesi che, pure, organizzavano insieme alle vicine e ai parenti più prossimi ‘a ‘ttunna, la cantata, dinanzi ad un presepe spesso illuminato da un mozzicone di candela o, in mancanza, una semplice immaginetta attaccata alla meglio sulla parete centrale di quel povero, rabberciato ricovero. Così, con l’esecuzione estemporanea di quelle antiche nenie, alcune davvero toccanti per la creativa spontaneità nel loro essere vernacolari, si rinnovava in quelle famiglie di gente per lo più analfabeta il segno di un’elevazione spirituale genuina, sincera e non comune.

Ancora adesso, mentre sto qui, pentito del mio far niente, a perseverare in un’attesa che comincia a mutarsi in stupida sofferenza, mi sento le orecchie piene di un suono che mi si annuncia primitivo, e per questo quanto mai poetico: quello della ciaramella della buonanima di Cicciu Vantaggiu (‘u vecchiu) che, in umiltà e per poche lire, faceva arrivare ovunque le sue malinconiche note, fin oltre i confini del mio quartiere. Allora, il canto dei bambini giunti a frotte insieme alle loro mamme mi raggiungeva in camera, sempre toccante e gradito, ed io mi lasciavo volentieri distrarre per alcuni minuti dalla loro esuberanza, a scapito dello studio. E mia madre, la figura più dolce che io possa mai ricordare, era lì, sempre pronta a sollecitarmi, con la  semplicità della sua parola, affinché adempissi in tempo i miei doveri scolastici:
“ Appena finisci – mi diceva – vattinni rittu rittu a’ nuvera. E ricorditi ca ‘u Signuri veni sempri ppi’ primu…”.

Il timbro sostenuto della voce del mio amico mi scuote di colpo. Non mi sono accorto di trovarmelo già accanto. Lui, avendo portato a termine le sue commissioni, ora finalmente meno impulsivo, reclama scherzoso una fetta di attenzione per sé e passa subito come d’uso a pochi convenevoli, come si addice a chi ci tiene ad accaparrarsi l’indulgenza e l’affetto altrui. Mi confida con sfacciata ingenuità, senza rendersi conto del tempo che mi ha costretto a sprecare, di aver trovato strada facendo la soluzione più conveniente ai suoi problemi di occupazione grazie ad una provvidenziale quanto inaspettata telefonata ricevuta dal suo datore di lavoro!

Ancor preso dai pensieri in cui mi è piaciuto tuffarmi, non mi raccapezzo ancora dei motivi per cui mi sono lasciato vincolare per metà pomeriggio. Lui, intanto, mi bombarda le orecchie evocando una caterva di bagattelle familiari che lo riguardano personalmente e che vorrebbe raccontarmi per filo e per segno a mo’ di sfogo, o forse per giustificarsi, e m’invita a prendere insieme un caffè.

Mi viene spontaneo un sospiro, e lui non capisce. Mi chiede che cosa mi passi per la testa. Nulla! – gli rispondo – ma in cuor mio vorrei essere altrove, magari in chiesa. Sì, magari in compagnia di quelle anonime vecchine dimesse e riservate che ho adocchiato in via Verdi. Fortunate! Per loro è veramente Natale!

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Cultura

Il maestro di fotografia Giuseppe Leone e il prezioso “lascito” per Biancavilla

La scomparsa all’età di 88 anni, il ricordo dell’ex assessore alla Cultura nella Giunta Manna

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È scomparso a Ragusa, all’età di 88 anni Giuseppe Leone, uno degli ultimi grandi interpreti della fotografia in Sicilia. Una figura originale di fotoreporter che ha raccontato l’Isola, il suo paesaggio, il mondo contadino, la condizione della donna ma anche la cultura: era amico di Leonardo Sciascia, Vincenzo Consolo, Gesualdo Bufalino. Nel 1997 dedicò diversi scatti anche a Biancavilla, su invito dell’allora assessore alla Cultura per la realizzazione del calendario del Comune. Oggi quella pubblicazione cartacea ha valore di opera d’arte. Di seguito, per Biancavilla Oggi, il ricordo di Nino Longo.

Al tempo in cui ero assessore alla Cultura della prima sindacatura di Pietro Manna, seguivo con una certa passione delle riviste di fotografia come “Reflex Progresso fotografico” e “Zoom “. In esse avevo letto un servizio su Giuseppe Leone e di una sua pubblicazione sull’architettura barocca nella Sicilia sudorientale. Avendo progettato di realizzare un Calendario sui Beni Culturali nel nostro Comune, mi venne l’idea di contattare il nostro famoso fotografo per proporgli il lavoro.

L’Ufficio riuscì a contattarlo e gli demmo un appuntamento. Lui venne e si mise a disposizione, mettendo alcune condizioni. Non ricordo la sua richiesta   in ordine al suo onorario, ma esso non fu particolarmente oneroso. Le condizioni da lui poste furono che le foto fossero in bianco e nero e che la scelta dei soggetti fotografici fosse solo sua e non sulla base delle richieste dell’Amministrazione. Lui poi venne a Biancavilla e andò in giro da solo, anche di notte.

La sua attenzione fu posta su diversi angoli del paese e soprattutto sulla “materia” della pietra lavica, su scorci architettonici e su semplici personaggi che si trovavano a passare casualmente o sostavano in certi angoli. Oltre alla “materia” il suo “occhio fotografico” si soffermava sugli effetti del chiaro/scuro e sulla “semplicità” dei soggetti umani.

Così noi scoprimmo il particolare effetto di certe immagini che avevamo sotto gli occhi ma che non avevamo “veramente visto”. Ed ecco il signor Torrisi sotto l’arco di San Giusippuzzu, le devote davanti “u Tareddu” di via Mongibello, il monello davanti all’arco di via Brescia, i confrati all’accompagnamento funebre, il suonatore di ciaramella. Ma anche in lontananza la chiesetta dell’eremo di Badalato, con l’enorme mole dell’Etna, i vecchi mulini ad acqua di Rollo, il basolato di via Innessa, di via Tutte Grazie, via preside Caruso, il portale della chiesa di Sant’Orsola.

Ne è venuta fuori una città antica ma vissuta, i cui personaggi si inserivano nell’insieme dei paesaggi, con i manufatti in evidenza. La vita vera, non retorica, non celebrativa. I nostri “monumenti” importanti messi da parte.

Il calendario è piaciuto a tutti; è andato anche all’estero. Qualche foto è stata esposta anche a New York, mi dicono. Molti cittadini, nel tempo, hanno riproposto alcune immagini, senza neanche sapere che erano parte di un calendario del comune di Biancavilla del 1997.

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